II Domenica di Quaresima (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 2/2017)



ANNO A - 12 marzo 2017
II Domenica di Quaresima

Gen 12,1-4a
2Tm 1,8b-10
Mt 17,1-9
(Visualizza i brani delle Letture)


LA TRASFIGURAZIONE DI
GESÙ SUL MONTE TABOR

L'incedere verso la Pasqua segna questa seconda domenica proponendoci il racconto della Trasfigurazione del Signore. Secondo le tradizioni liturgiche, si tratta della terza teofania: la prima è quella all'annunciazione; la seconda ha avuto luogo dopo il battesimo al Giordano. Di nuovo il mistero del Figlio ci si rivela nella sinergia testimoniale del Padre e dello Spirito. Spartiacque nella vicenda di Gesù, la Trasfigurazione segna l'avvio verso il messianismo del servo sofferente e dunque indica l'inizio del cammino verso la croce. L'indubbia tensione, affidata alle parole conclusive della pericope evangelica, non ci impedisce in questa domenica di sintonizzarci su note ottimizzanti.
La prima lettura ripropone la benedizione di Abram, tutt'uno con il racconto della sua chiamata. Dio lo sradica dalla sua famiglia e dalla sua terra, perché si rechi in un "altrove" a lui ignoto. L'invito però si intreccia alla promessa di una larga, larghissima benedizione. In lui, divenuto egli stesso benedizione, saranno benedette tutte le famiglie della terra. Abram obbedisce: «Partì come gli aveva detto il Signore». Il libro della Genesi non è di facile lettura anche se la storia dei patriarchi non ne costituisce, forse, la parte più complessa.
Ci appare come una saga familiare, come una dinasty d'altri tempi nella quale ci si scontra e incontra praticando la difficile arte dello stare al mondo. Per la fede d'Israele e anche per la comunità cristiana, Abram, a cui Dio muterà il nome in Abramo (cf Gen 17,5) è il comune padre nella fede. Quale sia stata la vicenda, la narrazione biblica lo propone nel segno dell'obbedienza totale a Dio che lo interpella, anzi che gli parla come ad amico. Abramo crede contro ogni speranza; ripone in Dio una fiducia incondizionata e, come tale, è il modello del credente nel suo farsi docile a Dio che gli si fa incontro.

La condizione ottimale, salvifica, che scaturisce dall'accogliere l'interpellanza che ci viene da Dio, dall'aderire al suo progetto e alla sua grazia è attestata anche nel brano della Seconda lettera a Timoteo oggi proclamato. L'autore ricorda al discepolo la salvezza e la chiamata ricevuta, esortandolo a soffrire con lui per la causa del Vangelo. Salvezza, grazia, preordinate da sempre nel disegno di Dio ma ora rivelate con la manifestazione di Cristo Gesù, Salvatore nostro. In continuità alla vocazione di Abramo, la vocazione santa (e gratuita) alla sequela di Cristo; in anticipazione della pericope evangelica, il tema della manifestazione del Salvatore nostro; a sigillo del cammino quaresimale, la professione di fede: Cristo Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo.
La narrazione della teofania su un alto monte, tradizionalmente il Tabor, è presente in tutti e tre i sinottici e costituisce una sorta di snodo. Matteo, che ha proposto l'episodio della confessione di Pietro, seguita dal primo annuncio della passione e risurrezione del Signore, ha chiuso il capitolo 16 con le parole relative alla sequela e al ritorno imminente del Figlio dell'uomo. Ora, al capitolo 17, Gesù prende con sé e conduce in disparte tre discepoli particolarmente amati: Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigura dinanzi a loro. I testi tutti insistono sulla luminosità del suo volto e sulla bianchezza acquisita dalle sue vesti. In un tripudio di candore e di luce gli si affiancano, conversando con lui, Mosè ed Elia. Il primo rappresenta la Legge il secondo la tradizione profetica d'Israele. Per Matteo le Scritture convergono nell'additare tutte !'identità messianica di Gesù. C'è in questo conversare un riconoscere Gesù come il compimento della Legge e dei Profeti. E se da una parte la nostra attenzione è calamitata dall'evento e dai testimoni singolari che lo accompagnano, non meno intensa nella tradizione cristiana è la lettura mistica, suggerita dall'atteggiarsi dei discepoli testimoni, corifeo ancora una volta Pietro.
L'esperienza è gradevole, esaltante, bella in senso forte e totale. Pietro vorrebbe restare lì per sempre e propone di erigere capanne per i tre in dialogo. Ma, ecco, una nube luminosa adombra i discepoli. La "nube" evoca la presenza, il manifestarsi di Dio il cui volto non può essere mirato direttamente, ma appunto velato dalla nube, che lo manifesta e lo nasconde a un tempo. Si pensi alla presenza divina nella tenda, santuario dell'Israele nomade, o alla presenza della gloria di Dio nel tempio a lui innalzato da Salomone. La "nube" nell'iconografia cristiana è emblema dello Spirito. È lui che agisce, attivando nel credente la capacità d'accoglie,re e contemplare il mistero di Dio. È lui che vela e disvela con saggezza infinita e paziente. Dalla nube fuoriesce la "voce", altro emblema di Dio.
Di nuovo, come al Giordano, il Padre rende testimonianza a Gesù e lo addita come «il Figlio mio, l'amato» in cui ha posto il suo compiacimento e chiede perentoriamente: «ascoltatelo!». La luce trasfigurata e trasfigurante del Tabor, espressione materica del mistero di Dio che ci si mostra divinizzatore dell'uomo, ci è, nel percorso quaresimale, anticipazione e viatico. Ci orienta, prima del dramma, verso la sua conclusione esaltante. Nel chiederci d'accompagnare Gesù verso la croce, ci rassicura già sulla manifestazione gloriosa di lui Signore della vita e vincitore della morte, pegno e sigillo della nostra divinizzazione.


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