V Domenica di Quaresima (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 3/2017)



ANNO A - 2 aprile 2017
V Domenica di Quaresima

Ez 37,12-14
Rm 8,8-11
Gv 11,1-45
(Visualizza i brani delle Letture)


IL "SEGNO" CHE CI
PREPARA ALLA PASQUA

La comunità che si avvia alla celebrazione della Pasqua si accosta a Cristo risurrezione e vita. Lo fa nell'ascolto di testi che rivelano la potenza dello Spirito di Dio quale radice e sorgente della vita. Alla pesantezza del morire da cui Cristo ci libera con la sua Pasqua, la comunità assimila la pesantezza del peccato che viene sconfitto partecipando alla sua morte e risurrezione. Giungiamo così al tornante definitivo del percorso di memoria/preparazione al battesimo: le sue acque ci sciolgono dalla condizione "mortale" innestandoci in lui che è il vivente nella forza dello Spirito Santo.

La lettura veterotestamentaria ripropone la visione delle ossa aride che il soffio dello Spirito restituisce alla vita. La scena evoca la sua potenza, la sua forza vivificante. Nel capitolo 37 di Ezechiele, di cui proclamiamo i vv. 12-14, lo Spirito è evocato dai quattro venti; soffia e rianima le ossa facendole uscire dai sepolcri. Al popolo deportato a Babilonia il profeta rivolge parole di consolazione e di speranza. Annuncia l'intervento grandioso di Dio di cui sono appunto metafora le ossa aride che ritornano a vivere. La novità più grande è però relativa allo Spirito. Il testo parla di "spirito mio". Dio farà entrare la sua potenza vitale negli esuli angosciati che ricondurrà nella loro terra. In una crescente comprensione dello Spirito, Dio si manifesta come colui che può risanare la pesantezza della colpa e restituire definitivamente il popolo alla sua alleanza (cf Ez 36,25-27).

Il testo apostolico è del tutto sintonico. L'antitesi legge della carne-legge dello Spirito dei versetti iniziali di Rm 8 si precisa come contrapposizione tra il vivere secondo la carne e il vivere secondo lo Spirito. Nel brano oggi proclamato, l'Apostolo afferma la novità della condizione del credente, passato ormai dal dominio della carne al dominio dello Spirito. Ciò a ragione del fatto che lo Spirito di Dio abita in lui. La sua presenza è condizione pregiudiziale dell'appartenere a Cristo, ossia dell'acquisita condizione nuova: l'essere morti al peccato partecipando alla morte e risurrezione di lui. Quanto in precedenza affermato con esplicito riferimento al battesimo (cf Rm 6,3-5), ora è connesso allo Spirito. Lui che ha risuscitato Cristo dai morti darà nuova vita anche al nostro corpo mortale. Rm 8 costituisce un inno vibrante alla potenza dello Spirito che è Spirito di Cristo ed è Spirito del Padre. Comunque lo si comprenda, egli costituisce la novità ultima, il sigillo. Essere inabitati dallo Spirito, vivere nello Spirito, è riconoscerlo principio di libertà, rottura con ogni forma di schiavitù e alienazione radicata nella fragilità della carne che egli risana.

Il testo evangelico, che vale la pena proclamare e ascoltare per intero, propone il miracolo più spiazzante tra quelli operati da Gesù. In esso la malattia e la morte non riguardano un estraneo. Toccano la carne viva di Gesù, le sue relazioni amicali. Lazzaro è identificato da «Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella». Il testo aggiunge che «Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli» (cf Gv 12,3). Si tratta, dunque, di una casa che egli frequenta; di amici e amiche che gli sono assai cari. La notizia della malattia lo coglie nel «luogo dove si trovava», forse al di là del Giordano (cf Gv 10). Egli non si muove immediatamente. Ai suoi che lo informano, precisa trattarsi di una malattia che non è per la morte ma per la gloria di Dio. Due giorni dopo decide di portarsi nuovamente in Giudea, malgrado il rischio d'essere lapidato.
La morte di Lazzaro s'intreccia, dunque, con la sua stessa vicenda, con il rifiuto di lui e del suo messaggio, con il pericolo che corre d'essere messo a morte. E finalmente, allorché giunge a Betania, gli si fa incontro Marta. Le parole di lei sin dall'inizio sono nel segno di una fede sconfinata. A lui che si proclama risurrezione e vita e afferma che chiunque crede in lui risorgerà, Marta risponde: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». Una professione di fede che nel Nuovo Testamento ha riscontro solo nella confessione di Pietro (cf Mt 16,16 e par.). Nel crogiuolo umanissimo di dolore e affetto entra in scena Maria. Le sue lacrime turbano profondamente Gesù, come turbano gli astanti. Poi il susseguirsi dei fatti. Alla domanda di rimuovere la pietra, Marta, che pure lo ha confessato come il Cristo, obietta che il fratello è morto già da quattro giorni. Ma deve manifestarsi la gloria di Dio.

La comunità credente riascoltando la vicenda di Lazzaro si prepara all'evento culminante e fondante della fede. Questo il senso del proclamare Gv 11 nella V domenica di Quaresima. E a noi la pericope lascia un'esperienza palpitante di prossimità e amicizia, di relazione forte che sovverte le stereotipie culturali. A riconoscere Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, non è il principe degli apostoli ma è una donna a cui la misoginia culturale suole sottrarre la potenza di questa solenne confessione. Senza riconoscerlo e confessarlo tale, la nostra vita resta priva di senso. La fede e l'amore che Marta testimonia verso colui che è risurrezione e vita ci aprono, nella grazia battesimale, a scenari inediti; quelli del vivere e del crescere in Cristo e nello Spirito.


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