Domenica delle Palme (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 3/2017)



ANNO A - 9 aprile 2017
Domenica delle Palme

Is 50,4-7
Fil 2,6-11
Mt 26,14-27,66
(Visualizza i brani delle Letture)


IL SERVIZIO HA IL SUO
CULMINE NELLA GLORIA

La liturgia della domenica delle Palme è caratterizzata anzitutto dalla celebrazione rituale dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme. Acclamato re, sarà di lì a poco tradito dalla stessa folla osannante che ora lo accoglie. Ma la nostra attenzione deve rivolgersi alle letture proposte per la celebrazione eucaristica in questa domenica di Passione. Si tratta di testi densi e drammatici che coinvolgono anche emotivamente l'assemblea. Leggiamo il testo di Is 50,4-7 in chiave cristologica. Il servo del Signore - si tratta del terzo canto - offeso e umiliato è Cristo stesso. Soprattutto il versetto 6 appare assai prossimo al dileggio di cui sarà oggetto nel corso della sua Passione. E, analogamente, si addicono al Cristo le affermazioni di partenza e di chiusura del brano proclamato. Il Servo vi appare nel segno dell'ascolto, della mite resa al volere di Dio che gli ha dato una lingua da discepolo perché indirizzi al popolo parole di consolazione. Il Signore lo sostiene nella prova e questa certezza lo rende forte nel suo patire.

Il dramma del Servo è altrimenti modulato in Fil 2,6-11. L'autore declina in forma poetica il paradosso del farsi carne del Figlio di Dio. L'esegesi e la tradizione spirituale hanno lungamente insistito sulla sua kenosis, sul suo svuotarsi della condizione divina per assumere la condizione di servo, facendosi simile agli uomini. E altrettanto hanno insistito sul suo "umiliarsi" facendosi obbediente sino alla morte di croce. L'inno, infatti, è inserito in un contesto esortativo sulla vita cristiana. Nella celebrazione odierna tuttavia ci interessa soprattutto il contenuto. Esso rivela la fede di una comunità che metabolizza il paradosso dell'abbandono della "forma" divina per assumere la "forma" umana. Il che è scandaloso e paradossale sotto ogni punto di vista. E, se possibile, il paradosso e lo scandalo diventano anche maggiori nella prospettiva della croce, la più umiliante e dolorosa delle morti, proposta nel segno dell' "obbedienza" che al pari dell' "umiliazione" non va intesa come atteggiamento passivo quanto piuttosto come consapevole adesione al progetto salvifico.
Mi si consenta di insistere soprattutto sul termine "servo" (doulos) che è la cifra dell'autocomprendersi del Signore Gesù e il nocciolo duro del suo messaggio. Non solo perché risulta evidente il collegamento stabilito nella liturgia tra la prima e la seconda Lettura, ma perché il farsi "servo" di cui parliamo implica un "essere per gli altri" che sovverte le regole e le aspettative umane e tuttavia è perfettamente coerente al disegno di Dio, alla relazione, al rapporto, che egli vuole tra sé e le creature e le creature tra loro. Il servizio è la chiave di volta della comunità cristiana, la condizione imprescindibile per acquisire quel cambio di passo che culmina nella doxa, nell'esaltazione che Gesù riceve dal Padre. Il che anticipa l'esito del dramma, che la comunità si avvia a rivivere, e apre alla signoria finale di Cristo.

In Matteo il racconto della passione e morte costituisce una unità con il racconto della risurrezione (Mt 26,1-28,20) con evidente parallelismo tra l'umiliazione della morte di croce e l'esaltazione della risurrezione gloriosa. Il tutto in una prospettiva teologica, anzi cristologica ed ecclesiale, pur nella trama di una scansione temporale ben precisa. Il Figlio dell'uomo, il servo sofferente, vi appare come il giusto messo alla prova, solidale nell'avversione e nella ingiusta condanna con quanti ne compartiscono la condizione, e innanzitutto la stessa comunità cristiana che sperimenta già la persecuzione. La lettura evangelica parte oggi dalla scelta di Giuda di consegnare Gesù ai capi dei sacerdoti e si chiude con la narrazione della sua affrettata sepoltura. È impossibile evidenziare le suggestioni di questo lungo racconto.
Ci limitiamo a estrapolare un solo tema, quello della fragilità, dell'incapacità di comprendere dei discepoli. Gesù ne è consapevole e li avverte già nel contesto della sua ultima cena con loro. Più esplicitamente degli altri avverte Pietro profetizzando il suo triplice rinnegamento. Nel contesto liturgico del Venerdì santo prevarranno altri temi. Questa sera la fragilità dei discepoli ci ferisce nella misura in cui sappiamo che è anche la nostra. Li vediamo, dunque, incapaci di vegliare con lui, di essergli compagni nell'attesa che precede l'arresto - attesa segnata dal timore, dalla ripulsa del dolore e della morte che egli vive come ogni altro essere umano, pur nell'abbandono al disegno del Padre. Essi sono incapaci di confessarsi suoi discepoli, sino a rinnegarlo.
Emerge insomma la solitudine del profeta, del servo ingiustamente sottoposto a giudizio: momento dopo momento egli sperimenta la farsa di un processo che gli imputa come la blasfemia così il progetto sovversivo di farsi re. Preferito a un brigante di strada, egli soffre pur essendo innocente. Subisce, crudele sovrappiù preparatorio alla morte di croce, la flagellazione. E poi in crescendo l'umiliazione della nudità, la carne trafitta, lo scherno e gli insulti.
Matteo, che continua nel suo intento di mostrare l'avverarsi in Gesù delle Scritture, colloca la morte di lui in una cornice apocalittica: si fa buio, il velo del tempio si squarcia, la terra trema, i morti escono dai sepolcri... Ma, testimoni compassionate della sua fine, stanno le donne che l'avevano seguito dalla Galilea per servirlo (diakonousai auto).


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