VIII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 1/2017)



ANNO A – 26 febbraio 2017
VIII Domenica del Tempo ordinario

Is 49,14-15
1Cor 4,1-5
Mt 6,24-34
(Visualizza i brani delle Letture)


IL CHINARSI DI DIO
SULLE SUE CREATURE

La lettura profetica propone oggi un testo, tratto dal Secondo Isaia, affiancato a un brano evangelico anch'esso segnato dal misericordioso chinarsi di Dio sulle sue creature. Il contesto è quello della gioia del ritorno annunciata dal profeta. A Sion che si dice dimenticata e abbandonata, Dio risponde con la metafora della madre, impossibilitata a cancellare il frutto delle sue viscere. E ammesso pure che ciò possa accadere, egli non dimenticherà il suo popolo. Sappiamo che questo è uno dei luoghi nel quale l'immagine di Dio, veicolata dall'Antico Testamento, orienta verso una paternità "materna". Lo esprime la commozione delle viscere, la compartecipazione fisica alla pena, tipica allo spettro semantico della "misericordia", la cui dinamica segna fortemente l'essere umano.
Essa al femminile evoca l'utero, l'organo compiacente che accoglie e lascia andare, mentre al maschile è affidata al contrarsi delle viscere, equivalente metaforico dell'utero, nel segno, appunto, di un sommovimento espressivo di com/passione. Un Dio compassionevole seguiterà a sorreggere e accompagnare il suo popolo. Lo esprimono le metafore dei versetti che seguono, prima tra tutte quella della "sposa" (Is 49,18). Nei versetti oggi proclamati sta comunque in evidenza, al di là dell'indubbia flessione della misericordia nella sua connessione al femminile-materno, l'assunzione di un paradigma che fa sua la complessità dell'umano, includendo l'identità eterogenea veicolata dalla e nella differenza. Se è vero che Dio sta al di là del genere, è tuttavia attraverso le sue stereotipie che esprime la sua misericordiosa prossimità.

La seconda lettura ripropone, nello sviluppo dell'argomentare, temi che abbiamo già incontrato. L'inizio del capitolo 4 ancora mette l'accento sul servizio reso da Paolo, servo di Cristo e amministratore (economo) dei misteri di Dio. Non si tratta di un ruolo "potente", ma appunto di un "servizio" relativamente al quale gli è richiesto - come si conviene a un amministratore - d'essere fedele al compito ricevuto. La comunità di Corinto, alquanto lacerata e confusa, pensa di poter giudicare sé stessa e la qualità della propria fede non meno di quanto pensa di poter giudicare l'operato di Paolo. Cosa che lascia indifferente l'Apostolo il quale afferma di non dare peso neanche al suo stesso giudizio: solo il Signore è il suo giudice. Solo lui può dire la parola ultima e definitiva, manifestativa dei segreti e delle intenzioni interiori. E la dirà al suo ritorno. Da qui l'invito a non giudicare prima che ciò avvenga. Soltanto allora ciascuno riceverà da Dio la lode. Se l'amore misericordioso rinvia alla pericope evangelica, la fiducia nel giudizio di Dio raccorda la lettura apostolica al testo oggi proclamato di Mt 6,24-34. Nel quadro più generale di una serie di esortazioni dirette a emancipare i discepoli dalle preoccupazioni materiali (cf Mt 6,19-34), i versetti oggi proclamati - ne costituiscono la parte conclusiva - propongono la contrapposizione tra Dio e la ricchezza e finalmente la ricerca del regno di Dio e la libertà che ne consegue. La contrapposizione tra Dio e la ricchezza trova un parallelo in Lc 16,13, così come in generale trovano riscontro in Luca le affermazioni dell'intera sezione. Non insistiamo - lo abbiamo già fatto - su quanto in parallelo afferma Lc 16,13.

Fermiamo invece la nostra attenzione sull'appello di Gesù a dismettere ogni preoccupazione sia che riguardi il cibo, sia che riguardi le vesti o altro ancora. Sicuramente l'invito di Gesù ha come destinatario il gruppo eterogeneo che lo segue nella sua itineranza. Dobbiamo supporlo disattento alla normalità del vivere e piuttosto centrato sul suo compito fondamentale: annunciare il regno di Dio. Probabilmente però Matteo estende questa radicalità, dettata dall'itineranza e dall'imminenza del Regno e dell'improcrastinabilità del suo annuncio, alla comunità cui indirizza il suo Vangelo, chiedendo le a sua volta di assumere queste istanze come proprie e permanenti.
Il testo ci propone, a conferma dell'attitudine di fiduciale abbandono del vero discepolo, l'esempio degli uccelli del cielo, non segnati dalla cura e dall'affanno circa la loro vita - non seminano, non mietono - e ai quali viene incontro la provvidenza di Dio. Analogamente Dio veste splendidamente i gigli dei campi, la cui livrea è assai più bella delle vesti proverbialmente sontuose di Salomone - eppure non faticano e non tessono. La cura di Dio si fa prossima all'erba che, falciata, è destinata al fuoco. Se Dio provvede a questo manifesto dell'effimero e del precario, a maggior ragione provvederà ai bisogni di quelli che Gesù apostrofa "uomini di poca fede". Sicuramente in questo professare la provvidenza misericordiosa del Padre, Gesù si colloca sul solco della tradizione d'Israele. Il suo non è un appello diretto al disimpegno, al lasciarsi andare, quanto un coerente porre al centro ciò che davvero occorre perseguire: il regno di Dio e la sua giustizia. Un'ultima osservazione. La locuzione "uomini di poca fede" ritorna più volte nei vangeli. Essa indica la difficoltà di quelli che pure lo seguono, a comprendere le parole e i gesti di Gesù: troppo paradossale il suo messaggio. Eppure, questo e non altro è, in ogni tempo, il dovere della comunità: tradurlo, viverlo nella sua stessa esorbitante paradossalità.


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