Santissima Trinità (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 4/2017)



ANNO A – 11 giugno 2017
Santissima Trinità

Es 34,4b-6.8-9
2Cor 13,11-13
Gv 3,16-18
(Visualizza i brani delle Letture)


DIO CI SALVA
TRAMITE IL FIGLIO

«Dio [...] ha mandato il Figlio [...] perché il mondo sia salvato per mezzo di lui». Gv 3,17 può ben sintetizzare le letture di questa prima domenica dopo Pentecoste, dedicata alla Santissima Trinità e iscritta tra le "solennità del Signore nel tempo ordinario". In verità ogni azione liturgica in qualsiasi giorno dell'anno è diretta alla Trinità e dalla Trinità proviene; infatti la preghiera cristiana è tale se diretta ad Patrem per Filium in Spiritu Sancto. Tempi di fragilità teologico-liturgica ne hanno introdotta una solennità, senza che sinora si sia riusciti a sanare l'incongruenza. Usiamone almeno come occasione per ribadire che tutto nella celebrazione e nella vita cristiana è orientato al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo.

La prima lettura propone un brano tratto dal libro dell'Esodo. Siamo nel cuore dell'alleanza sinaitica. Mosè sale sul monte con le tavole intonse e lì incontra il Signore. La cornice è teofanica. Il Signore fuoriesce dalla nube e si autoproclama: «Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di amore». Questo autorivelarsi di Dio lo dice potente. Lo dice altresì misericordioso e pieno di pietà. Questi due attributi di Dio, il primo soprattutto, sono stati lungamente oggetto di riflessione. Misericordia e pietà sono termini affini che esprimono entrambi prossimità e compassione. Il Dio d'Israele si autopropone ancora lento all'ira e ricco di amore, due qualità che ottimizzano l'umano e dunque a maggior ragione convengono a un Dio che, come prega Mosè, «cammini in mezzo al popolo». A Dio che così si rivela Mosè risponde appunto con l'adorazione e la richiesta di prossimità e di perdono.
Non c'è in questo autorivelarsi di Dio, malgrado la molteplicità degli attributi, un riferimento pur velato al mistero trinitario. Esso è invece esplicito nel saluto di Paolo in 2Cor 13,13. Le divine persone vengono qui evocate una a una con esplicita puntualizzazione di quello che è il loro ruolo nell'economia della salvezza. Al Signore Gesù è connessa la grazia che egli ci ha elargita morendo e risorgendo per noi. A Dio (Padre) è connesso l'amore come suo tratto costitutivo: solo l'amore è all'origine della creazione e poi del disegno di salvezza operato mediante il Figlio. Allo Spirito è propria la comunione come realtà che efficacemente egli produce e opera. Per questa ragione Paolo augura ai destinatari della Lettera di essere accompagnati, appunto, dalla grazia di Cristo, dall'amore di Dio, dalla comunione dello Spirito Santo. Le parole di Paolo sono di congedo. Il suo è un saluto preceduto dall'esortazione ad essere gioiosi, a tendere alla perfezione, a farsi reciprocamente coraggio, a compartire i medesimi sentimenti, a vivere in pace così che il Dio dell'amore e della pace sia con tutti loro. Il Dio cristiano è dunque un Dio d'amore e di pace. Un Dio benevolo e benigno. Un Dio Padre Figlio Spirito. Notiamo di passaggio come Paolo evochi "il bacio santo" la prassi degli antichi cristiani che così si salutavano l'un l'altro negli incontri rituali. Si trattava di un gesto che esibiva la condizione di santità acquisita venendo alla fede e che, dunque, li indicava come "i santi". Da qui l'espressione altrimenti non comprensibile: «Tutti i santi vi salutano», riferita alla comunità presso la quale si trova l'Apostolo e dalla quale invia la sua lettera, forse la Macedonia negli anni 56/57.

Nel contesto dell'autorivelazione di Dio, del suo darsi a conoscere, la lettura evangelica propone uno stralcio del dialogo di Gesù con Nicodemo. Sappiamo che l'incontro avviene di notte a ragione della condizione di quest'ultimo, un fariseo capo dei Giudei, interessato a Gesù ma ancora legato al gruppo a cui appartiene. Il dialogo è denso, articolato. Tocca il tema della rinascita nell'acqua e nello Spirito; tocca la testimonianza che Gesù solo può dare di sé stesso. I versetti proclamati motivano l'incarnazione: Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Egli non l'ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo sia salvo. Detto altrimenti, a fare la differenza è l'autogiudizio, la scelta di campo che ciascuno compie da sé e che può comportare anche la perdizione. Ma non è questo l'atteggiarsi di Dio. Egli non è un irato giustiziere che persino con la violenza difende il presunto buon ordine delle cose. Né tanto meno il suo è l'atteggiamento persecutore di chi scopre i limiti dell'altro e se ne compiace.
Nel vangelo di Giovanni, il "mondo" è una categoria difficile di non univoca comprensione. Qui si stempera l'antagonismo che a volte gli si accompagna bollandolo quasi di estraneità irredimibile o irredenta. O forse questa è la lettura facile e di comodo che mette in pace la nostra coscienza, più opportunamente rassicurata dalla coppia puro/impuro, santo/perverso, Dio/mondo e più inquietata dal dover invece prendere atto che non è Dio che la stabilisce e ne fa criterio di condanna. No, non da lui promana il giudizio ma dalla incapacità di riconoscere e accogliere la salvezza. Comunque sia, Dio ci salva nel tramite del Figlio, che proprio nel dialogo con Nicodemo si dice dovrà essere innalzato alla maniera del serpente di bronzo nel deserto (cf Nm 21,8-9). Chi crede in Gesù, ripetutamente al capitolo 3 indicato come "Figlio dell'uomo", non è condannato. Ma chi non crede in lui proprio per questo è già stato condannato. Il nostro Dio, Padre Figlio Spirito, è benevolenza e perdono, ed elargisce la sua santità a chiunque ne accolga la parola di vita.


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