XII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 5/2017)



ANNO A – 25 giugno 2017
XII Domenica del Tempo ordinario

Ger 20,10-13
Rm 5,12-15
Mt 10,26-33
(Visualizza i brani delle Letture)


FARSI ATTENTI
ALL'INVITO DI GESÙ

L'invito pressante che oggi ci viene rivolto è racchiuso nelle parole: «Non abbiate paura...». La pericope evangelica contestualizza l'appello cui ci preparano sia le parole del profeta che quelle dell'Apostolo.

La prima lettura è tratta dal libro di Geremia. Sappiamo bene come sia tragica la sua vicenda che si snoda in uno dei periodi più difficili della storia d'Israele. Il suo ministero s'intreccia infatti con l'infrangersi delle speranze che hanno accompagnato il regno e la riforma religiosa di Giosia (640-609), durante il quale, verosimilmente intorno al 627-626 (13° anno del regno di Giosia, cf Ger 1,2; 25,3), Geremia ha iniziato la sua missione. Egli sarà testimone in ascoltato della sventura che sta per abbattersi sul popolo e che ha il suo acme nella caduta di Gerusalemme, nella distruzione del tempio e nella deportazione dei suoi abitanti a Babilonia. Accusato di disfattismo, sarà osteggiato tanto da attentare alla sua vita. E ciò malgrado seguiterà a levare la sua parola con una forza tragica che lo assimila alla figura di Cristo. Cose tutte evidenti nel testo oggi proclamato.
Al capitolo 20 Geremia è percosso violentemente da Pascur, sacerdote e sovrintendente-capo del tempio, reo soltanto d'aver profetizzato nel tramite della "brocca spezzata" quanto incombe su Israele. Dal v. 7, in forma poetica, la quasi "disperata" confessione del profeta, di cui leggiamo solo i versetti da 10 a 13. In un incedere concitato egli esprime i sentimenti che animano i suoi avversari e quelli stessi che egli nutre. Se da una parte emerge la volontà di annientarlo, dall'altra esplode la sua fiducia nella prossimità di Dio che avrà la meglio sui persecutori. E se il profeta invoca Dio che mette a prova il giusto, che conosce il cuore e la mente, perché sconfigga i suoi persecutori, le parole di chiusura sono nel segno dell'abbandono e della lode verso colui che ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.

Questo manifesto fiduciale, questa resistenza a oltranza a partire dalla certezza che il Signore ci sta a fianco, connota il celebre passaggio della lettera di Paolo ai Romani che contrappone un "uomo solo", a ragione del quale sono entrati nel mondo il peccato e la morte, a un altro "uomo solo", Gesù Cristo, a ragione del quale ha sovrabbondato la grazia. Come ho già avuto occasione di affermare, il problema non è tanto l'antitesi vecchio Adamo - nuovo Adamo, quanto piuttosto la presa d'atto della sovrabbondanza della grazia, incommensurabilmente più grande del peccato. Dunque ancora un implicito invito a non temere, a confidare nel trionfo del dono che tramite Cristo si riversa su tutti.

Il testo evangelico appartiene al secondo dei cinque discorsi - "il discorso di missione" - in cui si articola la narrazione di Matteo. In particolare i versetti oggi proclamati, che si inseriscono nella sezione più ampia relativa alla persecuzione e alla fiducia nel Padre (10,26-11,1), sono preceduti dalle istruzioni che Gesù dà a coloro che invia in missione (vv. 1-15) e a quelle relative ai discepoli nella persecuzione (vv. 16-25).
Il quadro di riferimento è quello di una comunità in qualche modo sottoposta alla prova, anche se si è ormai consumata la separazione dall'ambiente giudaico; da qui il reiterato invito: non abbiate paura (vv. 26.28.31) che regge una serie di affermazioni caratterizzate letterariamente da antitesi (nascosto/svelato; segreto/conosciuto; tenebre/luce; corpo/anima; uomini/Dio; confessare/rinnegare). Ciò che ci tocca, oltre la forma, è la volontà di Matteo di tracciare una sorta di identikit ideale del discepolo, reso tale dalla fede verso il Padre e dal riconoscersi solidale alla vicenda di Cristo crocifisso. Da qui la sua libertà, la capacità di emanciparsi da ogni paura. Da qui l'impegno a favore della causa del Vangelo. Quale che sia la difficoltà che la comunità matteana vive, ancora più grande è la fermezza supportata dalla fede. Essa può sconfiggere la paura e portare i discepoli a confessare pubblicamente quanto credono.
Non è la morte fisica a dire l'ultima parola. Piuttosto ciò che va temuto è perdere la pienezza di vita donata al discepolo. Nell'insieme frammentato troviamo la paradossale affermazione della cura, della sollecitudine paterna di Dio nella metafora dei "passeri" o dei "capelli contati". I primi, benché vengano venduti solo per un soldo, soggiacciono comunque al volere del Padre, il quale conosce persino il numero dei capelli che ciascuno ha in capo. Ciò malgrado resta la consapevolezza evidente della prova, morte compresa, che il credente non può eludere. Criterio ultimo è il riconoscere pubblicamente il Signore, condizione questa dell'essere da lui riconosciuti.
Di contro, rinnegarlo implica l'essere da lui rinnegati. Potremmo obiettare che questa comunità non è la nostra. Il che è vero solo in parte, visto che anche il nostro presente conosce crisi e prove. Al di là delle forme pesanti di avversione in cui possono incorrere i credenti, sta l'irriducibilità radicale dell'affidarsi alla cura del Padre e dell'assumere Cristo come modello. L'invito "non abbiate paura" raggiunge dunque noi come i discepoli di ogni tempo e ci incoraggia a testimoniare sempre e comunque la nostra fede. L'invito, poi, è veramente accolto nella misura ne siamo a nostra volta banditori.


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