XVI Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 6/2017)



ANNO A – 23 luglio 2017
XVI Domenica del Tempo ordinario

Sap 12,13.16-19
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43
(Visualizza i brani delle Letture)


ACCOGLIERE E FARE
PROPRIA LA PAROLA

«Chi ha orecchi, ascolti!». Facciamo di questa «espressione il filo conduttore di questa domenica. Sono infatti molte e diverse le sollecitazioni che giungono dalla parola di Dio che, appunto, occorre "ascoltare". E ciò è possibile per il dono che ci rende idonei ad accoglierla e interiorizzarla: lo Spirito del Signore.

La prima lettura è tratta dal libro della sapienza, ultimo libro dell'Antico Testamento, per altro rimasto fuori dal canone ebraico. Sarebbe stato redatto in lingua greca, nella seconda metà del I secolo a.c., da un ignoto autore appartenente alla comunità ebraica di Alessandria d'Egitto. Costui, con un linguaggio colto e raffinato, dialoga ad armi pari con la cultura ellenistica, filosofia compresa, offrendo così una chiave di comprensione inedita alla sua stessa comunità di appartenenza. Il brano odierno appartiene alla terza sezione del libro (cc. 10-19). L'autore vi mostra la presenza della Sapienza nella storia d'Israele. I nostri versetti sono estrapolati dalla "digressione" relativa alla divina filantropia (cf 11,15-12,27).
La visione ottimistica si concentra nell'affermazione finale: Dio ha dato ai suoi figli la buona speranza che, dopo i peccati, egli concede il perdono (v. 19). Questa felice certezza non è fine a sé stessa. Il credente è invitato a prendere atto dell'agire di Dio e a farlo proprio. La qualità del suo essere, la modalità d'esercizio della sua pantocratoria - pantokrator lo diciamo nel simbolo niceno-costantinopolitano, indicando il suo "potere" come esercizio sommo di "cura" - lo manifesta benigno, indulgente, mite. Egli insegna al suo popolo l'amore verso tutti gli uomini. Questo è, dunque, l'atteggiamento del "giusto". La Sapienza nell'omonimo libro è assimilata allo Spirito del Signore che riempie la terra e tiene insieme tutte le cose. Lo Spirito vi è detto ancora filantropo, amico degli uomini.

Questa singolare presenza è magnificamente espressa in Rm 8,26-27. I versetti che precedono ci hanno posto in ascolto del gemito della creazione che attende d'essere trasformata (8,19-22); anche il credente, pur possedendo le primizie dello Spirito, geme in attesa (v. 23). Ora il gemito è quello stesso dello Spirito. Egli soccorre la nostra debolezza, la nostra incapacità di rivolgerci a Dio in modo adeguato. Egli stesso intercede per noi. La benignità della Sapienza è tutt'uno con la benignità dello Spirito. Potremmo dire che il nome proprio d'entrambi è gratuità e grazia. Ecco, appunto, è la grazia ad essersi riversata nei nostri cuori nel tramite dello Spirito che si fa nostro interprete. E ciò con "gemiti inesprimibili", ossia attraverso un linguaggio, veicolo di una domanda di redenzione definitiva e piena.

La lettura evangelica propone ancora il "discorso in parabole". Nella forma breve (13,24-30) si limita alla parabola della zizzania; in quella lunga (13,24-43) include anche le parabole del granello di senape e del lievito. Nei vangeli Gesù parla in parabole, lo sappiamo, per rendere più accattivante e insieme provocatoria la buona novella del Regno. Matteo, con il suo vezzo di trovare conferme nella Scrittura, coglie in ciò il compiersi delle parole del Sl 78,2. Ma, citazione a parte, il tipo di uditorio giustifica questa scelta retorica. Per noi oggi la zizzania è evocativa di dispettoso malanimo. Si tratta, tuttavia, di una graminacea infestante.
Nella parabola il regno dei cieli è paragonato a un agricoltore che ha seminato buon seme e si ritrova nel campo quest'erba ostile. Piuttosto che estirparla, sceglie d'aspettare la mietitura così da separarla, senza danno, dal grano. Se emergono le difficoltà sottese alla buona riuscita del raccolto, e, come vedremo, la spiegazione ai vv. 40-43 suggerisce lo scenario finale del giudizio, la parabola del granello di senape dice il buon esito del Regno che cresce, malgrado la modestia del suo inizio. Tale è lo sviluppo di quest'albero che si fa grande, offrendo riparo agli uccelli.

Domestica e umile a suo modo è la parabola del lievito. Ne è protagonista una donna che lo mischia a tre misure di farina. Ci piace pensare che ad ascoltare Gesù ci fossero tante donne. Di certo la scelta attesta una tipologia inclusiva. Destinatari e protagonisti del Regno sono sia gli uomini che le donne, gli uni e le altre indicativi delle sue dinamiche e del suo sviluppo. Notiamo ancora che non diversamente dalla semina, anche fare il pane è azione usuale. E si tratta sempre di una parabola di crescita, visto che gli enzimi lievitanti moltiplicano il volume dell'impasto. Come già per la parabola del seminatore, anche per quella della zizzania emerge l'atteggiarsi diverso di Gesù verso i discepoli, l'intimità di un rapporto al cui interno si colloca la richiesta di spiegazioni. Per loro soltanto si profila l'identità degli attori della parabola (vv. 37-39): il Figlio dell'uomo è il seminatore, il campo è il mondo, il buon frutto sono i figli del Regno; la zizzania sono i figli del maligno che l'ha seminata; la mietitura è il giudizio e i mietitori sono gli angeli.
All'immagine della fornace si intrecciano quelle del pianto e dello stridore di denti, il Regno invece si delinea nel segno della luce. La chiusa: «Chi ha orecchi, ascolti!» ci riconduce certo all'ascolto, ma soprattutto alla comprensione e traduzione fruttuosa, all'interiorizzazione vitale di quanto ascoltato.


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