Trasfigurazione del Signore (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 6/2017)



ANNO A – 6 agosto 2017
Trasfigurazione del Signore (XVIII Dom. del T. ord.)

Dn 7,9-10.13-14
2Pt 1,16-19
Mt 17,1-9
(Visualizza i brani delle Letture)


SPECCHIARSI NELLA SUA
UMANITÀ DIVINIZZATA

«Signore, è bello per noi essere qui!». L'esclamazione di Pietro può ben essere la chiave di questa "festa" che, come tutte le feste del Signore quando capitano nel tempo ordinario, oggi ha la precedenza sulla XVIII domenica. Gli esegeti si sono lungamente interrogati sulla storicità della trasfigurazione del Signore e le loro opinioni divergono. Pure nell'immaginario cristiano - e nell'iconografia che lo esprime - questa è una festa di altissimo spessore. L'abbiamo già celebrata a metà Quaresima cogliendo in essa una sorta di anticipazione della risurrezione del Signore, una specie di viatico consolatore nella prospettiva della sua passione. La celebriamo ora nel corso dell'anno, alla data che la tradizione, soprattutto orientale, le ha attribuito: quaranta giorni prima della "esaltazione della Croce" (14 settembre).
La teofania del Tabor, così la tradizione benché i testi parlino soltanto di "monte", è presente in tutti e tre i sinottici e nella Seconda lettera di Pietro. Essa celebra l'investitura messianica di Gesù e proprio per questo costituisce uno spartiacque. Testimoni dell'evento quelli tra i suoi che egli sceglie. Ad essi si manifesta nella sua divinità umanata e nella sua umanità divinizzata.

La lettura veterotestamentaria è tratta dal profeta Daniele. In una visione dichiaratamente apocalittica il profeta ha dinanzi la corte celeste e un vegliardo di abbagliante candore che siede su un trono di fuoco mentre un fiume di fuoco scorre davanti a lui. A servirlo miriadi di angeli. Dinanzi al profeta si asside la corte celeste e si aprono i libri rivelativi del disegno di Dio. In questo contesto fantasmagorico - il genere apocalittico veicola lo spettacolare e il fantastico - ecco si presenta "uno simile a un figlio d'uomo". Ciò che il profeta vede nella visione notturna è la sua intronizzazione messianica, questa la lettura di certa tradizione giudaica e cristiana. A lui vengono dati potere, gloria e regno. Dinanzi a lui, il cui potere è eterno, stanno i popoli tutti d'ogni lingua e nazione. La visione di Daniele troverà non poca eco nel libro dell'Apocalisse. A noi importa sottolineare come Gesù farà proprio il titolo di "Figlio dell'uomo" in qualche modo facendo proprie anche le caratteristiche della figura misteriosa descritta dal profeta. Leggerne quest'oggi la visione ci prepara alla vista del trasfigurato, anch'esso nel segno del candore e della luce, additato nella sua identità divina.

Il testo oggi proclamato della Seconda lettera di Pietro rivendica il valore probante dell'esperienza rivelatrice della trasfigurazione. Così dicendo, l'autore si inserisce nel solco dell'apologetica tardo-giudaica che distingueva accuratamente la verità dei racconti fondatori della Scrittura dai "miti pagani". Presentandosi con il nome di Simon Pietro (cf 2Pt 1,1), egli si propone quale testimone oculare della grandezza del Signore Gesù, e indica la teofania come l'evento durante il quale Gesù riceve onore e gloria dal Padre. C'è un'evidente convergenza tra la costituzione messianica del Figlio dell'uomo descritta da Daniele e, appunto, l'onore e la gloria ricevuti da Gesù sul "santo monte". Qui la voce del Padre lo ha indicato come il Figlio, l'amato nel quale ha posto il suo compiacimento. Il brano si chiude ricorrendo alla voce dei profeti a cui bisogna rivolgere attenzione come a una lampada che illumina l'oscurità della notte sino allo spuntare del giorno, sino a quando nell'intimo di ciascuno non sarà sorta la stella del mattino: Cristo stesso stante l'innografia liturgica.

Abbiamo già colto a suo tempo i tratti propri della redazione matteana dell'evento. La chiamata di Gesù a seguirlo sul monte relativa ai soli Pietro, Giacomo e Giovanni; il trasformarsi di lui davanti ai loro occhi in un trionfo di luce che ne trasforma il volto e ne rende splendenti le vesti; l'affiancarlo di Mosè e di Elia, ossia la legge e i profeti; la presa di parola di Pietro, l'idea di fissare definitivamente l'evento, stabilizzarlo, addirittura costruendo tre capanne, evocative della tenda santuario del deserto, a protezione dei tre che gli stanno davanti. Abbiamo già sottolineato la valenza della "nube" emblema dello Spirito e della "voce", emblema del Padre, come pure le parole di riconoscimento e dilezione verso colui che egli addita come il Figlio, l'amato. Il manifestarsi di Dio, l'esperienza estatica vissuta si fanno per i tre discepoli adorazione e insieme timore.

L'esperienza in qualche modo li sconvolge. Ma la parola di Gesù li rincuora. Udirlo, alzarsi è però al tempo stesso uscire dell'estasi, dalla singolarità di quell'esperienza. Davanti a loro rimane Gesù solo, nell'ordinarietà del suo sembiante. Alla salita ora subentra la discesa, tutt'uno con il divieto di rendere partecipe chicchessia dell'esperienza «prima che il Figlio dell'uomo non sia risorto dai morti». La trasfigurazione è nel segno della luce, tant'è che l'Oriente parla di luce taboritica e vi si ispira come modello spirituale. Nelle regioni mediterranee il 6 agosto cade a metà dell'estate, quando la luce non ha ancora cominciato il suo declino. La riflettono mosaici inarrivabili che, appunto, nel Salvatore Pantokrator rappresentano il Cristo trasfigurato. Coglierne i tratti è entrare nella nube che non è oscurità ma luce pura.


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