XXI Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 7/2017)



ANNO A – 27 agosto 2017
XXI Domenica del Tempo ordinario

Is 22,19-23
Rm 11,33-36
Mt 16,13-20
(Visualizza i brani delle Letture)


NELLA CHIESA
IL POTERE È SERVIZIO

«Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente». La confessione di Pietro, a lui dettata non dalla carne e dal sangue ma direttamente da Dio, può ben accompagnarci in questa domenica nell'intelligenza della comunità messianica, della Chiesa cui tutti apparteniamo.
La lettura profetica annuncia un passaggio di potere tra Sebna, maggiordomo del palazzo durante il regno di Ezechia e Eliakìm, figlio di Chelkìa. Siamo all'interno degli oracoli del Primo-Isaia il cui ministero si intreccia con momenti drammatici del regno di Giuda. Il capitolo 22, benché inserito tra gli "oracoli sui popoli stranieri", condanna ai vv. 1-14 l'eccessiva esultanza degli abitanti per la liberazione di Gerusalemme (il che avverrà nel 701, mentre Eliakìm è già maggiordomo) e nei versetti oggi proclamati annuncia la sostituzione di Sebna. Le parole del profeta ci mettono dinanzi a un problema sempre vivo, quello del "potere". Ottenerlo, esercitarlo sembra molla dissennata e permanente dell'esistenza umana.
Si è disposti a tutto pur di comandare. Ebbene c'è una modalità d'esercitare il potere che lo svuota della sua malizia. Si tratta di tradurlo in sollecitudine e cura; di comprenderlo come responsabilità verso gli altri, come "servizio". Ciò che il potere è nel progetto di Dio appare proprio nella caratterizzazione di Eliakìm, additato come "servo", ossia come persona che si pone dinanzi a Dio riconoscendone la signoria. Proprio per questo egli potrà essere un "padre" per Gerusalemme e per Giuda, emulando la sollecitudine che Dio ha verso i suoi figli. Poiché si tratta di un maggiordomo, ossia di un funzionario che esercita quale vicario il potere stesso del re, ci troviamo dinanzi a immagini ed espressioni che questo significano: le chiavi, l'aprire e chiudere. Da qui la prossimità al testo evangelico.

I versetti della Lettera ai Romani concludono la sezione relativa a Israele. In essi Paolo tesse la lode del mistero di Dio, delle sue vie, dei suoi giudizi, della sua conoscenza e della sua sapienza. Trabocca il cuore dell'Apostolo dinanzi a un mistero mai pienamente comprensibile, mai pienamente penetrabile. Cose tutte espresse nell'incalzare di domande retoriche: chi mai ha conosciuto il pensiero del Signore, chi gli è stato consigliere, chi gli ha dato qualcosa per primo così da supporre di poterne avere un contraccambio? Paolo confessa la grandezza di Dio, il fatto che egli sia principio dal quale promana ogni cosa. Il «da lui, per mezzo di lui e per lui» ha il sapore di una formula liturgica sigillata dall'acclamazione: «A lui la gloria nei secoli. Amen». Quest'intermezzo laudativo sembra non avere un rapporto diretto con la lettura profetica e con quella evangelica. Eppure è possibile cogliere nell'investitura di Eliakìm e poi di Simone-Pietro un segno della potenza di Dio, dell'insondabilità misteriosa delle sue vie.

Il brano evangelico, relativo al cosiddetto "primato di Pietro", è una tradizione presente solo in Matteo, anche se non manca un riscontro in Lc 22,31-32 e Gv 21,15-17. Tutti i sinottici registrano infatti la confessione messianica di Pietro, ma manca in essi l'amplificazione che qui ritroviamo ai vv. 17-19. L'episodio è introdotto dalla domanda di Gesù ai discepoli su chi dice la gente che egli sia, a cui segue la domanda su chi pensano loro che egli sia. Gli risponde, appunto, Simone confessandolo come il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Si fa così solenne interprete dell'identità messianica di Gesù, puntualizzata sia riconoscendolo come il Figlio, sia indicando Dio come il "vivente", così affermandone la presenza e l'azione nella storia. La fede messianica di Petros è "la pietra (petra, femminile) questa" su cui sarà edificata la comunità messianica, l'Ekklesía. Nello sfondo il simbolismo della pietra/roccia su cui è fondato il tempio di Sion-Gerusalemme, che nell'immaginario mitologico d'Israele sta sopra il mondo sotterraneo e lo tiene a bada, ma è anche porta verso il cielo. A ciò si aggiunge la funzione di clavigero, compito appunto del maggiordomo.
La casa di cui ora si parla - e le cui chiavi sono affidate a Pietro - è quella del Regno. Pietro, dunque, riceve per primo il potere di legare e di sciogliere ossia, secondo la tradizione rabbinica, di proibire e permettere, ovvero, secondo altra lettura, di scomunicare o ammettere nella comunità. Compito che, però, va esercitato diversamente da come fanno i notabili d'Israele: essi impongono agli altri pesi insostenibili, ma ai quali essi stessi si sottraggono. Legare e sciogliere si colloca, dunque, nell'orizzonte del discernere la volontà di Dio e di operare quella giustizia altra, grazie a cui si può entrare nel Regno.

È indubbio che nell'amplificazione dell'episodio Matteo voglia sottolineare il ruolo di Pietro. Eppure né la tradizione patristica né quella medievale vi hanno fatto ricorso per fondarvi il privilegio del successore di Pietro. Valga per tutti il rinvio ad Ambrogio per il quale ciascuno di noi è la "pietra" su cui è edificata la Chiesa se confessa Gesù come il Cristo. L'enfasi successiva ci ha condotti ad amplificare oltre misura il ruolo del Papa, malgrado una bellissima espressione, attribuita a Gregorio Magno, lo indichi come servus servorum Dei. Le letture di oggi c'invitano ad acquisire altra consapevolezza dell'organismo ecclesiale. Esso è, con felice metafora, costruzione bene articolata di cui Cristo è pietra angolare, mentre gli apostoli ne sono il fondamento (cf Ef 2,20-22). Ma sull'esempio di Cristo, che per noi si è fatto servo, le pietre tutte, le une verso le altre, sono legate dalla mutua diakonía.


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