XXII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 7/2017)



ANNO A – 3 settembre 2017
XXII Domenica del Tempo ordinario

Ger 20,7-9
Rm 12,1-2
Mt 16,21-27
(Visualizza i brani delle Letture)


SEGUIRE IL MESSIA CHE
MUORE E RISORGE

Difficile ricondurre a unità i testi di questa domenica. Da una parte, la confessione drammatica di Geremia, dall'altra i primi versetti di Rm 12 e, ancora, la parte finale di Mt 16. Si tratta di testi, ognuno nel suo genere, particolarmente noti. Chi di noi non ha avvertito il dramma di Geremia? Chi non ha ascoltato le sue parole quasi blasfeme di rivolta? Chi di noi non ha sentito parlare della logiké latreia, del culto "logico", secondo ragione, proprio ai cristiani? E chi ancora non ha avvertito la radicalità sottesa all'invito a prendere ciascuno la propria croce per seguire Gesù?

La lettura profetica ci mette dinanzi lo strazio del profeta, la denuncia esacerbata del suo difficile rapporto con Dio. Geremia parla di seduzione. Dice d'essere stato sedotto e d'essersi lasciato sedurre. Ma, come subito precisa, non si è trattato di una fascinazione attrattiva: Dio gli ha usato violenza. La sua carne si rivolta, costretto com'è a gridare: «Violenza! Oppressione!». Non è facile essere profeti. C'è un oggettivo divario tra le loro umanissime aspirazioni e le parole che Dio pone sulla loro bocca. La contestualità del ministero di Geremia è - lo sappiamo - drammatica. Egli è costretto a gridare, inascoltato e irriso, la rovina che incombe sul popolo. Da qui la ribellione, la decisione di sottrarsi a questo Dio violento che gli pone sulle labbra parole non di consolazione ma di rovina. Ma niente alla fine egli può dinanzi a Dio che lo possiede, dinanzi al fuoco ardente che lo attraversa e di fronte al quale soccombe e si piega. La tradizione ecclesiale ha stabilito un filo rosso tra la figura di Geremia e quella stessa di Cristo. Se vogliamo, nel testo evangelico proclamato, Pietro rappresenta i molti che non ne comprendono la missione, non diversamente dai contemporanei di Geremia che provano a spegnerne la sua profezia infausta.

Su un registro diverso i due versetti della Lettera ai Romani. Anche su di essi s'è detto e scritto tanto. Mi sia consentito proporli nella prospettiva del culto nuovo, in spirito e verità, reso a Dio dai cristiani. Essi non sono più chiamati alle ritualità di un sacerdozio sacrificale cruento, per di più disgiuntivo, quasi che solo alcuni fossero chiamati a esercitarlo. L'offerta dei propri corpi, ossia di sé stessi, quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, riguarda invece tutti e sostanzia lo stesso rendimento di lode cristiano. La traduzione in uso rende logiké latreia con "culto spirituale". Con ciò, a mio parere, s'incrementa di senso l'espressione di partenza connettendo il culto così reso allo Spirito. In effetti è lui il vero soggetto celebrante, sempre e comunque. Egli è l'agente della nostra santificazione e perciò della nostra trasformazione e "renovazione", per usare un'espressione desueta. Senza di lui è impossibile, poi, operare quel discernimento che promuove sino in fondo la corrispondenza tra culto e vita.

Nel vangelo un incipit redazionale ci avverte sul cambio di passo nel discorrere di Gesù con i suoi. Si tratta ora d'istruirli, prepararli a quanto lo attende. E ciò avviene innanzitutto confidando loro la sofferenza che lo aspetta, la morte e la risurrezione il terzo giorno. Pietro, irruente e focoso, prova a indurlo a pensieri diversi: non sia mai che ciò avvenga! Ed ecco Gesù che pochi versetti prima lo ha detto beato, ora gli rivolge parole durissime, assimilandolo al Satana, ossia al diabolos, al "separatore". Pietro gli è pietra di scandalo, visto che lo animano pensieri non secondo Dio. Non stupisca che questi versetti siano stati per secoli omessi dalla Chiesa di Roma, essendo troppo forte il biasimo verso colui di cui il Papa è il vescovo successore. In verità Pietro si fa interprete della difficoltà dei discepoli ad accettare un messianismo diverso da quello atteso dall'Israele del tempo. L'idea di un Messia umiliato lo turba profondamente e forse un analogo sentimento inquieta la comunità di Matteo.
Lo scontro con Pietro motiva retoricamente le parole di Gesù sulla sequela; parole certamente rivolte ai discepoli che lo seguono, ma rivolte insieme, nella redazione teologica di Matteo, ai discepoli della sua comunità. Ci troviamo dinanzi a cinque sentenze, altrove recepite separatamente. L'appello di Gesù a prendere la propria croce e a seguirlo è accompagnato da brevi affermazioni rette dal tema della "vita" nella contrapposizione dei verbi salvare/perdere - trovare/guadagnare (vv. 24-26). Gli ultimi versetti evocano la venuta del Figlio dell'uomo e il suo giudizio (vv. 27-28).

In questione è dunque l'esortazione-insegnamento di Gesù sulla sequela autentica di lui Messia crocifisso. Forse nello sfondo c'è anche una comunità essa stessa messa alla prova, a cui viene proposta la radicalità della sequela, la scelta, senza se e senza ma, del valore incommensurabile del regno di Dio. Per esso val la pena di perdere la propria vita. In effetti solo così la si guadagna in senso pieno e definitivo. Lo provano i verbi già indicati che richiamano le parabole del Regno (cf Mt 13). Il tutto nella tensione verso il ritorno del Figlio dell'uomo e del suo giudizio. Il che significa guardare a Gesù non solo nell'umiliazione della croce, ma pure nella gloria del suo ritorno. Gloria a cui il discepolo confida di partecipare. Dunque nessuna indulgenza a un gratuito dolorismo. La vera sequela sta nel discernere la volontà di Dio, nel far fronte alla sconfitta e alla persecuzione se è il suo disegno. Il cristianesimo è gioia perché la croce è inseparabile dalla risurrezione. La sequela autentica ne è consapevole e ne è vivificata già qui e ora.


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