XXIII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 7/2017)



ANNO A – 10 settembre 2017
XXIII Domenica del Tempo ordinario

Ez 33,1.7-9
Rm 13,8-10
Mt 18,15-20
(Visualizza i brani delle Letture)


CORREGGERE
MA SENZA ESCLUDERE

«Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». Questa assicurazione di Gesù nel contesto di Mt 18, il cosiddetto "discorso comunitario", può ben essere assunta come cifra del nostro ascolto domenicale. Ascolto fattivo, immediatamente fattivo e liberante. La Chiesa, infatti, sussiste dove ci si raduna nel suo nome. Essa è assemblea, raduno, comunità così il nostro testo traduce il termine Ekklesía nella sua seconda e ultima sua ricorrenza all'interno dei vangeli. Questa domenica, insomma, mette a tema la comunità e le sue regole di condotta.

La lettura veterotestamentaria ripropone la funzione profetica, il ministero del profeta che è quello di parlare a nome di un altro. Ezechiele, in particolare, deve trasmettere l'avvertimento che riceve e portarlo integro al destinatario. Se non lo farà, gli sarà addebitata la sorte di chi pecca non avendo ricevuto il messaggio. Se invece lo farà, la condanna colpirà chi non ascolta le sue parole di profeta, ma a lui nulla sarà imputato. Il profeta, qui apostrofato "figlio d'uomo" proprio per indicare in lui l'umano nella valenza sua più ampia, è posto come sentinella per il suo popolo. E, fatte le debite distinzioni, questo non è soltanto il compito dei grandi profeti o dei profeti scrittori. Tutto il popolo di Dio è popolo di profeti. Tutti a partire dal soprannaturale senso della fede (cf LG 10) devono farsi sentinelle, banditori della verità cui aderiscono. Tocca a tutti il compito di ammonire ed esortare alla conversione. La loro salvezza passa anche dall'aver espletato questo compito.

Il carattere nuovo, compartito, della comunità cristiana, lo stile di vicendevole corresponsabilità è attestato anche nei versetti della Lettera ai Romani di cui, pur con discontinuità, proseguiamo la lettura. Paolo - e la sua testimonianza è quella stessa dei vangeli - riassume qui nella carità la pienezza della Legge. I comandamenti qui elencati - adulterio, omicidio, furto, desiderare (ovviamente la donna e i beni altrui) - vengono tutti ricapitolati nel disposto positivo dell'amare il prossimo come se stessi. L'amore, dunque, la carità come regola aurea del vivere cristiano, come compiutezza della Legge. Questo stile di vita amorevole, questa regola, trova un'eco particolare in Mt 18 in cui sono raccolte alcune indicazioni pratiche per la comunità cristiana. Non si tratta di norme disciplinari. Se mai - da qui il parallelismo oggi stabilito con la lettura profetica - si tratta di avvertimenti che caratterizzano quest'ultima o di ammonizioni di tipo sapienziale. Gli esegeti rilevano il parallelismo che corre tra i vv. 1-20 e 21-35 del capitolo. Gesù risponde a una precisa domanda, e supporta la sua risposta con parabole, per concludere evocando il Padre celeste. I versetti 15-20, oggi proclamati, chiudono la prima parte del capitolo offrendo norme diverse sulla riconciliazione fraterna.
Ciò che ne ricaviamo è la presenza nella comunità di Matteo di tensioni varie. In particolare è presente una condizione di inadeguatezza, di peccato che mette a disagio la comunità che ne è ferita. E dal momento che si tratta di un peccare che investe i membri stessi della comunità - notiamo di passaggio che tutto ciò è affidato alla dialettica "ascoltare"/"non-ascoltare" - troviamo l'esortazione a una prassi graduale che faciliti la ricucitura del rapporto. L'ammonizione in privato, la chiamata in causa di testimoni perché per loro tramite s'aggiusti il conflitto e, finalmente, il ricorso alla comunità, all'Ekklesía. Se neppure essa sarà ascoltata, la sentenza ultima pare suggerire una doppia lettura.
Da una parte, infatti, considerare chi rifiuta la riconciliazione come un pagano e un pubblicano potrebbe indicare la preda d'atto di una rottura definitiva e insanabile. Dall'altra, l'attitudine di Gesù verso i pagani e i pubblicani, il farne oggetto della sua predilezione, potrebbe piuttosto suggerire di nutrire verso chi pecca sentimenti di amorosità estrema, quasi che la loro situazione impegni ancora di più sul piano di quella giustizia più grande che è richiesta per entrare nel Regno. Dunque non la riproposizione di una prassi giudiziale a tre livelli sul modello di quella giudaica, ma l'appello a una pratica diversa espressa anche dalle parole che seguono circa il diritto/dovere della comunità a legare/sciogliere. Tutto ciò che i discepoli legheranno o scioglieranno (in gioco è la dinamica già vista del permettere/proibire - escludere/ammettere) sarà legato o sciolto nei cieli. Ma questo appunto comporta quella discrezione, quella sapienza, quella prudenza che connotano la giustizia più grande a cui la comunità è chiamata.

Negli ultimi versetti, il discorso sembra farsi altro. In verità non è difficile cogliervi una continuità con il tema della correzione fraterna ovvero con il vissuto autentico della comunità. Troviamo infatti affermato che se due discepoli si metteranno d'accordo su una richiesta da fare al Padre, questa sarà da lui esaudita. E ciò perché dove due o tre sono riuniti nel suo nome, lì Gesù è in mezzo a loro. Matteo insomma ci propone la sua utopia di Chiesa, nella quale oltre le difficoltà, le paure, le separazioni, ciò che veramente conta è l'essere comunità, lo stare insieme. Là dove i fratelli stanno insieme è anche presente il Signore. Il che ci richiama a uno stile diverso, amorevole, colloquiale; a un discernimento attento che guarda con simpatia l'altro, evitando di escluderlo dalla comunità, quale che sia la sua colpa, vera o presunta.


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