XXIV Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2017)



ANNO A – 17 settembre 2017
XXIV Domenica del Tempo ordinario

Sir 27,30-28,7
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35
(Visualizza i brani delle Letture)


OCCORRE PERDONARE
SEMPRE E COMUNQUE

Perdonare «sino a settanta volte sette». Ossia perdonare, sempre e comunque. Questo il messaggio di questa domenica nella corrispondenza del testo evangelico a quello veterotestamentario, inframmezzati da pochi versetti tratti ancora dalla Lettera ai Romani.

La prima lettura è tratta dal libro del Siracide, uno "scriba" vissuto nel II secolo a Gerusalemme e la cui opera ci è giunta tradotta in lingua greca dal nipote, esponente della diaspora giudaica in Alessandria. Il brano odierno si iscrive sulla linea tradizionale della sapienza ebraica e affronta il tema del perdono. Nel cuore del saggio non possono albergare né rancore né vendetta. Piuttosto occorre perdonare chi ci ha offeso e ciò sarà ascritto a remissione dei propri peccati. La condizione umana, sempre incline alla colpa perciò indigente di perdono, necessariamente deve guardare all'altro con attitudine di misericordia. Come altrimenti sperare per sé stessi? Collocarsi, consapevoli della propria finitudine, dinanzi a Dio e chiederne il perdono, è possibile solo se ci si fa solidali al proprio simile. L'odio non paga. Meglio dimenticare il peccato altrui e ricordare i precetti del Signore.

I versetti 7-9 del capitolo 14 sono gli ultimi che leggiamo dalla Lettera ai Romani, che ci ha lungamente accompagnati. Nella suddivisione della Lettera appartengono alla seconda parte della "sezione pratica", che si è aperta con il capitolo 12. Ai cc. 14 e 15 la contrapposizione è tra i "deboli" e i "forti. In questione sono le pratiche alimentari che contrappongono giudeo-cristiani a pagano-cristiani, ma non solo. I versetti che vengono oggi proclamati sono espunti dal contesto e fanno da collante tra le diverse formulazioni dell'invito al perdono offerto nelle altre due letture. Paolo afferma la signoria di Cristo e lo fa argomentando che nessuno vive o muore per sé stesso; sia che si viva sia che si muoia ciò avviene per il Signore e nel Signore. A lui appartiene ogni cosa. Per questo Cristo è morto ed è tornato in vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. Il che - aggiungiamo noi - cambia in radice la comprensione che di se stessi hanno i credenti, le regole del loro comportamento, il loro collocarsi nella comunità e nella storia.

Il testo evangelico prosegue n?lla lettura di Mt 18. Siamo ora alla sua seconda parte. È Pietro a interpellare il Signore, chiedendo gli se bisogna perdonare sino a sette volte il fratello che pecca contro di noi. Sette è già numero simbolico d'indole esorbitante ed evoca il limite superato il quale ci si può vendicare di un torto. Ma la risposta di Gesù è spiazzante perché afferma che occorre perdonare "settanta volte sette". Paradossalmente è ribaltata la pretesa delirante di Lamech in Gen 4,24, quella appunto di vendicarsi settantasette volte del torto subito. Per Gesù alla logica della vendetta si oppone solo la logica del perdono. Il discepolo non ha alternative. Egli deve necessariamente perdonare. A riprova, viene da lui proposta una lunga e articolata parabola, quasi un canovaccio scenico in cui sono evidenti gli attori, la situazione, la richiesta, la decisione presa. Un servo debitore di 10.000 talenti (nella nota a Mt 18,24 della TOB, traduzione ecumenica della Bibbia, la cifra è indicata come equivalente a circa 50 milioni di euro!), impossibilitato a restituirli al re, rischia d'essere venduto come schiavo, lui e la sua famiglia.
Egli fa però breccia nel cuore del re, chiedendogli d'essere longanime e impegnandosi a rifonderlo del tutto. Il re, udendolo, ha quel sommovimento delle viscere che plasticamente esprime la misericordia e gli condona il debito. Ma il servo agisce diversamente verso un compagno che gli deve appena cento denari (circa 5 euro!) e con violenza chiede la restituzione del suo sino a farlo imprigionare. Come abbiamo udito, questa condotta inqualificabile giunge alle orecchie del re, il quale richiama il servo impietoso e gli chiede conto della condotta verso il compagno, tanto più odiosa per aver contraddetto la pietà di cui lui stesso è stato oggetto. Da qui l'arresto sino alla risoluzione del debito. Gesù conclude che anche il Padre celeste agirà allo stesso modo se non si perdonerà al proprio fratello.

L'orizzonte resta ancora quello della comunità cristiana, del dovere reciproco del perdono. E tuttavia non è superfluo richiamare i termini tecnici che esprimono la misericordia e la pietà. Del re si dice" impietositosi" (splanchnistheis). Splanchna sono le viscere. La misericordia corre dunque sul filo di questa contrazione interna, di questo commuoversi/sommuoversi che rende capaci di far propria la situazione dell'altro. In senso stretto non andrebbe tradotto "impietositosi", ma "turbandosi/commuovendosi nell'intimo". Più avanti ritorna il termine pietà (eleos), avere/provare pietà. Il che non esprime una partecipazione viscerale profonda, quanto piuttosto la presa d'atto - direi oggettuale - dell'indigenza dell'altro.
Comunque sia, la dinamica della parabola esplicita il settanta volte sette, risolutivo definitivamente circa l'obbligatorietà del perdono. La comunità cristiana testimoniataci dal vangelo di Matteo è impegnata a praticarlo reciprocamente e ciò ne dice anche il limite, la contestualità imperfetta. Per Matteo la giustizia evangelica è una meta a cui tendere.


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