XXV Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2017)



ANNO A – 24 settembre 2017
XXV Domenica del Tempo ordinario

Is 55,6-9
Fil 1,20c-24.27a
Mt 20,1-16
(Visualizza i brani delle Letture)


LA GIUSTIZIA DI DIO È
SUPERIORE ALLA NOSTRA

«Gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi». Le parole conclusive del Vangelo possono offrirci la chiave della celebrazione odierna e soprattutto ci sono incentivo a recepire le regole del Regno così diverse dalle nostre.

La lettura veterotestamentaria propone una serie di esortazioni volte a mettere a fuoco il rapporto con Dio. Il Secondo Isaia ci invita a cercare il Signore, mentre si fa trovare, a invocarlo mentre è vicino. L'orizzonte è dunque quello della prossimità. A partire da essa l'invito all'empia ad abbandonare la sua via e all'iniquo a rinnovare i suoi pensieri, ossia a ritornare al Signore che usa misericordia e perdona. Motivazione della prossimità, della misericordia e del perdono è la rivendicazione che Dio fa della sua irriducibile singolarità. Infatti altre sono le sue vie, altri i suoi pensieri.
E per esprimere il divario, la distanza tra l'essere e l'atteggiarsi di Dio e l'essere e l'atteggiarsi dell'uomo, fa ricorso allo schema polare alto/basso, cioè cielo/terra. Come il cielo sovrasta la terra così le vie del Signore sovrastano le vie degli uomini, i suoi pensieri i loro pensieri. I versetti che abbiamo parafrasato appartengono al capitolo 55 di Isaia. Il profeta rivolge l'invito finale, disegna la nuova alleanza nel segno di una rinnovata e ritrovata relazione tra Dio e il suo popolo, nell'efficacia della sua parola, nella promessa gioiosa e pacifica del ritorno.

La seconda lettura è tratta dalla Lettera ai Filippesi, che ci accompagnerà nell'arco di diverse domeniche. Ritenuta unanimemente paolina e destinata agli abitanti della città macedone di Filippi, essa attesta il rapporto speciale di Paolo con questa comunità da lui evangelizzata nel secondo viaggio missionario e poi più volte visitata. Si tratta del suo primo annuncio in Europa. Con i Filippesi egli resterà legato da forti vincoli di affetto, testimoniati per altro proprio nella lettera. In essa egli si dice in carcere, forse ad Efeso, da dove scriverebbe attorno al 56-57. I versetti proclamati appartengono al primo capitolo. In essi Paolo afferma che Cristo sarà glorificato nel suo corpo, sia che viva sia che muoia. Egli è ben certo che vivere è Cristo e dunque che morire è per lui un guadagno. E d'altra parte vivere significa per lui seguitare ad annunciare il Vangelo.
Da qui il suo essere a mezzo tra due desideri opposti: quello di lasciare il corpo per essere con Cristo e quello di continuare a vivere operando a favore dei fratelli. Inutile dire che queste espressioni paoline sono diventate un banco di prova della spiritualità cristiana nella tensione del credente tra l'acquisire definitivamente l'oggetto della sua fede e della sua speranza e l'imperativo a faticare, a impegnarsi per la causa del Vangelo.

La lettura evangelica ci pone in ascolto ancora di una parabola, forse una delle meno immediatamente comprensibili, a partire dai criteri della giustizia comuni agli esseri umani. Si tratta infatti di quel padrone di casa che ingaggia, uscendo a diverse ore del giorno, nuovi operai per la sua vigna. Dobbiamo portarci in un mondo ormai lontano, nel quale un proprietario terriero, oltre ai famigli abituali, ricorreva all'opera di operai presi a giornata. Essi stavano in attesa, sin dalle prime ore del giorno, nella pubblica piazza sperando d'essere reclutati. Che il padrone seguiti a chiamarli secondo il bisogno non fa problema.
Ciò che non funziona e dice la profonda diversità della remunerazione messa in atto da Dio - il che richiama la stessa irriducibile diversità di Dio che ci è stata attestata nel testo di Isaia - è la scelta di pagare non secondo le ore effettive di lavoro e lo stress che esse comportano, ma dando a tutti lo stesso compenso. Il padrone rivendica il diritto a disporre del suo come gli piace. E poiché la parabola mette in scena l'agire di Dio e le regole del Regno, resta evidente che egli può sovrabbondare dando a tutti la ricompensa, ma non tariffandola. Rivendica il suo diritto a remunerare allo stesso modo il servo fedele e quello peccatore che, pentito, si pone alla sequela.

La chiusa però dice anche altro. È inutile nella comunità cristiana mettere in conto il momento della chiamata o l'efficacia del proprio impegno. Dio chiama di continuo a lavorare per la causa del Regno ed è stolto e vano accampare privilegi o avanzare recriminazioni. Al contrario occorre rallegrarsi di questo suo chiamare a tutte le ore ed essere fieri del privilegio di lavorare nella sua vigna. Detto ciò, non possiamo tacere che la parabola è stata proposta non tanto nella sua carica eversiva, quella di una "giustizia superiore", ma in una lettura vocazionale che forse le è estranea.
È così avvenuto - e autorevolmente - che l' ''anche voi" delle chiamate successive stesse a indicare le classi diverse del popolo di Dio sino a includere, per ultimi, i semplici battezzati, chiamati anch'essi a offrire il proprio contributo. La vigna invece è metafora del Regno e se si vuole, a suo modo, della comunità che deve riproporne le dinamiche. Tocca i discepoli tutti, i quali non possono invocare precedenze quali che siano. Nel regno di Dio - quando anche nella Chiesa? - non ci saranno gerarchie, protocolli, cerimoniali. Ci sarà la gioia dell'essere in Cristo.


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