XXVI Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 8/2017)



ANNO A – 1° ottobre 2017
XXVI Domenica del Tempo ordinario

Ez 18,25-28
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32
(Visualizza i brani delle Letture)


FARE LA VOLONTÀ DEL
PADRE SENZA FINZIONI

Man mano che c'incamminiamo verso la fine dell'Anno liturgico il tema escatologico si fa più evidente. La comunità cristiana è invitata a riflettere sulla sua aderenza al Vangelo, sulle sue istanze, spesso espresse in modo sconvolgente e paradossale. Questa domenica, ad esempio, ci consegna l'espressione di Gesù: «I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» (Mt 21,30) - un giudizio inquietante che chiama in causa le nostre scelte.

Fa la stessa cosa il profeta Ezechiele, richiamando alla propria responsabilità personale. Nel mondo antico, e dunque anche per Israele, non era facile districarsi tra la responsabilità del gruppo e quella dell'individuo. Questa solidarietà nel peccato, come nella giustizia, aveva un suo potente significato: sottolineava l'interrelazione delle persone umane, le quali, dunque, mai si possono comprendere nella loro sola individualità, ma nell'interconnessione del loro vivere e agire. Ezechiele, proprio al capitolo 18, spezza però l'automatismo e la passività che potrebbe derivarne. Da qui, all'inizio del capitolo la ripresa, per negarlo, dell'antico proverbio: i padri hanno mangiato l'uva acerba e ai figli si sono legati i denti.
La condizione in cui il popolo si trova, l'esilio, chiede un cambio di passo, un'affermazione più decisa della responsabilità individuale. Essa si esprime sino alla fine nella scelta del bene come del male. Il che allerta circa la necessità di restare vigili e consapevoli. Non ci sono garanzie all'infuori della fedeltà a Dio, in cui bisogna perseverare. D'altra parte è sempre possibile ritornare a lui, se da lui ci si fosse allontanati. E conta non l'atteggiamento passato, ma la scelta ultima a favore della vita o della morte a cui personalmente ci si determina.

Tra Ezechiele e il brano evangelico fa da cerniera un passaggio della lettera ai Filippesi, che è possibile proporre nella forma abbreviata o integralmente. Personalmente ne propongo la lettura integrale, perché colloca meglio, nella contestualità della domenica, il messaggio dell'Apostolo. La lettura dei soli celebri versetti relativi alla kenosi e alla corrispondente esaltazione del Signore Gesù non rispondono a mio avviso al messaggio globale che le letture odierne ci offrono.
Infatti, il brano proclamato esorta ad avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo. Questo sforzo d'imitarlo certamente dà conto di lui, del suo assumere forma di schiavo. Ma oltre e prima dell'inno che la lettera ci trasmette, sta l'esortazione dell'Apostolo a vivere la comunità con sentimenti di unanimità e di concordia. Egli esorta i cristiani di Filippi a escludere tra di loro ogni rivalità, ogni vanagloria, ogni interesse che non sia quello degli altri. Inutile dire che l'esortazione è pertinente e attuale sempre nelle nostre comunità che mai sino in fondo vincono la tentazione dell'onnipotenza, della presunzione della verità, dell'ostentazione della superiorità, all'interno come all'esterno. Va da sé, poi, che l'umiliazione che caratterizza l'essere del Signore tra noi e il suo darsi per noi non è la parola ultima: alla croce subentra la gloria.

Il testo evangelico ci riconduce al confronto tra Gesù e i "capi dei sacerdoti" e gli "anziani del popolo", qui affidato alla parabola dei due figli. Il primo, invitato a recarsi a lavorare nella vigna del padre, si rifiuta a parole di farlo, ma di fatto poi fa quanto gli è stato richiesto. Il secondo invece dice subito di sì, ma si guarda bene dell'esaudire la volontà del padre. Sia chiaro, l'ambientazione della parabola è "patriarcale". Si iscrive cioè in un mondo culturale dominato dal volere del padre, arbitro della vita dei figli e della famiglia. Dobbiamo ovviamente decontestualizzare, ricusare l'involucro patriarcale per mettere in evidenza quello che può essere il messaggio della parabola oggi per noi.
Sicuramente il padre di famiglia è Dio stesso il cui disegno salvifico occorre assecondare. Ma la domanda di Gesù è diretta a far emergere chi dei due figli ne ha compiuto il volere. E la risposta è facile. Uno solo ha obbedito, l'altro invece ha solo finto d'obbedire. Per Gesù, però, i due figli rappresentano la cartina di tornasole circa l'atteggiamento verso di lui. Il fare la volontà del padre qui mette in scena l'accoglienza di Gesù stesso che i notabili rifiutano, mentre lo seguono quelli che nella mentalità corrente sono i reprobi, i già condannati.
Gesù avverte i ben pensanti che lo guardano con ostilità e sospetto che i pubblicani e le prostitute avranno la precedenza nel regno dei cieli. Abbiamo già detto che i pubblicani erano odiatissimi, anche perché a servizio dei romani. Delle prostitute, invece, non abbiamo avuto occasione di parlare. Con l'ipocrisia, che è propria d'ogni tempo, le donne che vivevano offrendo per denaro il proprio corpo erano ignorate ed evitate.
Pubblicani e prostitute diventano il manifesto di un'attitudine interiore altra e il criterio è la predicazione di Giovanni, inascoltata dai notabili, ma interiorizzata dai pubblicani e dalle prostitute che hanno avuto fede in lui. È chiaro che in questione è Gesù stesso, la fede in lui come inviato del Padre e banditore del Regno. Le nostre comunità, come quelle testimoniateci dal vangelo di Matteo, rischiano ancora di restare invischiate in una presunzione di giustizia che le perde e non le salva


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