XXIX Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2017)



ANNO A – 22 ottobre 2017
XXIX Domenica del Tempo ordinario

Is 45,1.4-6
1Ts 1,1-5b
Mt 22,15-21
(Visualizza i brani delle Letture)


IL POTERE POLITICO
E LA PRATICA RELIGIOSA

«Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Queste parole ci sono tanto familiari quanto non facili da decodificare. Investono il potere, l'ambito del potere umano, ben distinto e diverso dalla signoria di Dio. Chiedono perciò al cristiano un profondo discernimento e, se vogliamo, un impegno maggiore nel ricondurre il mondo a Dio.

La lettura veterotestamentaria, tratta dal Secondo Isaia, descrive con toni ispirati la figura di Ciro, il re persiano del quale Dio si serve per consentire il ritorno degli esuli in patria. Egli è inconsapevole protagonista della storia della salvezza. Di lui Dio si avvale per manifestare la sua potenza. Ciro è l'eletto, colui che Dio ha preso per mano e ha chiamato per nome, malgrado egli non lo conosca. Manifestandosi nella sua unicità e potenza, Dio rende manifesto il suo amore viscerale per Giacobbe, suo servo, per Israele, suo eletto, rendendone possibile il ritorno. Non si tratta di un evento indolore perché il popolo ha lungamente sperimentato una condizione di schiavitù. Ed è per scuoterlo, per risignificargli il senso del ritorno, una sorta di nuovo e potente esodo, che il profeta apostrofa gli esiliati così che comprendano l'agire di Dio nel tramite di un re straniero.

Cominciamo con questa domenica la lettura della Lettera ai Tessalonicesi. Scritta attorno al 50, trae ragione dalla gioia che viene a Paolo dal sapere che la sua predicazione, incompiuta a ragione della persecuzione che ha costretto lui, Timoteo e Silvano a lasciare la città (cf At 17), ha trovato terreno propizio. Gliene ha dato testimonianza Timoteo, da lui inviato a Tessalonica proprio temendo la fragilità di una comunità non appieno formata. Da qui la gioia dell'Apostolo, il lungo rendimento di grazie che attraversa i primi tre capitoli, mentre nel quarto - la lettera è tutta segnata dall'attesa imminente del ritorno del Signore - Paolo risponde alla domanda dei Tessalonicesi sulla risurrezione dei morti. Nell'insieme troviamo preoccupazioni etiche, senza che ancora appaiano i grandi temi teologici della letteratura paolina.
Ne abbiamo ascoltato l'incipit, le parole di saluto, immediatamente seguite da espressioni esplicative che declinano il vissuto cristiano dei Tessalonicesi, legandolo all'operosità della fede, alla fatica della carità, alla fermezza della loro speranza. La vita cristiana dunque scandita da queste virtù, ciascuna sottolineata così da farne emergere la qualità: la fede è operosa; la carità esige fatica, la speranza è salda. Ovviamente sono contestualizzazioni che interpellano il nostro vissuto teologale. Altrettanto ci chiama in causa la locuzione "fratelli amati da Dio" con cui Paolo li indica. Dietro il vissuto teologale di cui Paolo si rallegra, sta il mistero della chiamata e questa stessa - come prova la parzialità della missione di Paolo e degli altri - ha a suo fondamento la potenza dello Spirito. I Tessalonicesi, dunque, sono credenti non a ragione del solo insegnamento, ma a ragione dell'azione potente dello Spirito che sorregge e qualifica la loro adesione alla fede.

Sembrerebbe non esserci un nesso con la lettura evangelica. Invece non è così solo che leggiamo il testo evangelico nella prospettiva del vivere teologale, ossia del concreto tradurre la relazione con Dio. Il contesto resta quello già visto del conflitto tra Gesù e i notabili del popolo che tramano per coglierlo in fallo. Questa volta il dilemma che lo si chiama a sciogliere sembrerebbe condannarlo, comunque sia la risposta. Se, infatti, egli dirà che è lecito pagare il tributo a Cesare - e al momento non c'è niente di più obbrobrioso per un popolo privato della sua sovranità - lo si rimprovererà di prendere le parti della potenza occupante; se viceversa farà sua la tesi della illegittimità del pagare le tasse, allora lo si additerà come un sedizioso, uno che minaccia l'ordine pubblico. Il dilemma è tanto più sottile perché a farsene portatori sono i discepoli dei farisei ed erodiani. I primi religiosamente avvertono il disagio di un tributo a un re straniero che pretende gli sia reso culto; i secondi, collaborazionisti, parteggiano per la dinastia che regna grazie alla protezione di Roma.
Né meno sottile è l'avvio del discorso: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno...». Sembrerebbero suoi estimatori. Gesù ne riconosce la malafede; vogliono solo metterlo alla prova. Ed ecco che esce fuori dal dilemma, proponendo una soluzione terza, messa in bocca, quasi, agli stessi interlocutori. Sulla moneta è impressa l'immagine di Cesare ed egli può ben dire: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Come a dire che non può darsi confusione tra ciò che è dovuto allo Stato e ciò che è dovuto a Dio, tra potere politico e pratica religiosa. E tuttavia bisogna rispettare l'una e l'altra, evitando di confonderle.
Vivere alacremente la fede, faticare nell'esercizio della carità, essere fermi nella speranza diventa garanzia di fedeltà a Dio e supporta la qualità della propria cittadinanza. Se vogliamo, Dio signore della storia è colui che ultimamente la conduce. Ma proprio questo obbliga il credente, riconoscendolo tale, a vivere il frattempo impegnandosi al massimo, promuovendo, senza pericolose confusioni, il suo Regno e i suoi valori. Essi passano dal riconoscimento dell'autonomia delle realtà terrestri. Ciò esige dal credente profondo discernimento e traduzione creativa del proprio appartenere a Dio e del proprio incedere nella storia (cf GS 43).


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