XXX Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 9/2017)



ANNO A – 29 ottobre 2017
XXX Domenica del Tempo ordinario

Es 22,20-26
1Ts 1,5c-10
Mt 22,34-40
(Visualizza i brani delle Letture)


IL PIÙ GRANDE
COMANDAMENTO

«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente [...]. Amerai il tuo prossimo come te stesso». Conosciamo la risposta che Gesù dà al dottore della Legge; che lo interroga su quale comandamento sia più grande. È risposta risolutiva, antica e nuova, misura della relazione con Dio e della relazione nostra con gli altri.

Ci prepara ad essa la lettura veterotestamentaria tratta dall'Esodo. Siamo all'interno delle disposizioni relative al codice dell'alleanza. Il testo di oggi contestualizza tre categorie di persone: il forestiero, l'orfano e la vedova, colui che contrae un debito. Dinanzi a costoro, alla loro oggettiva indigenza, alla mancanza di qualcuno che se ne faccia difensore, Dio stesso si propone come garante, sicché l'offesa ad essi arrecata è offesa a lui. Il tema del forestiero, dello straniero tocca la nostra sensibilità. Dimenticando d'essere costitutivamente "pellegrini", anzi "stranieri" (cf 1Pt 1,1), ci affanniamo a difendere le nostre supposte identità. A Israele Dio ricorda la condizione da cui l'ha tratto, il suo essere forestiero in Egitto; da qui il comando di non molestare e non opprimere chi, in seno al popolo di Dio, è straniero. Il tema della vedova e dell'orfano ci riporta a una situazione drammatica, propria del contesto patriarcale; in esso un minore rimasto senza padre, una donna rimasta senza marito il più delle volte sono segnati dall'indigenza; peggio, diventano "invisibili".
Da qui la minaccia di rendere orfani e vedove i figli e le mogli di chi maltratterà la vedova e l'orfano. Non meno indifeso è colui che ha bisogno di un prestito. Il testo condanna espressamente l'usura, ossia la pretesa che il denaro venga restituito con un guadagno percentuale proporzionalmente abnorme. E condanna altresì la non restituzione al tramonto di un bene vitale, dato in pegno. L'esempio è quello del mantello di cui chi lo dà in pegno ha assoluto bisogno per difendersi dal freddo della notte. Dunque un'attitudine diversa e sollecita da parte di Dio verso gli ultimi, e l'invito, anzi, il comando a farla propria.

I versetti tratti dal capitolo primo della Lettera ai Tessalonicesi ci mettono dinanzi al terzo motivo di rendimento di grazie che ne caratterizza l'inizio. I Tessalonicesi sono divenuti un modello per tutti i credenti che abitano le due province dell'Acaia e della Macedonia. Per mezzo loro la parola di Dio si è anche diffusa tanto che non c'è bisogno di missionari. Quelli che hanno accolto la Parola testimoniano non solo come Paolo si è condotto a Tessalonica, ma come i Tessalonicesi stessi si siano convertiti per servire il vero Dio e attendere la venuta del Figlio che egli ha risuscitato dai morti. Se il tema dominante è quello dell'imitazione dell'Apostolo, così da essere al pari di lui imitatori di Cristo, non meno importante è la dinamica dell'aderire alla Parola nella gioia dello Spirito così da farsene banditori. Il tutto nello sfondo, nell'attesa, del ritorno del Signore che i Tessalonicesi, al pari di altre comunità cristiane, attendono come imminente.

Il brano di Matteo si iscrive ancora nella controversia che oppone Gesù alle principali correnti religiose del suo tempo. Come anticipato, la questione riguarda ora il comandamento più grande. Gesù risponde con due precise citazioni della Legge. Esse riguardano l'amore per Dio, il comandamento primo e più grande, per osservare il quale è chiamata in causa la globalità dell'essere umano: cuore, anima, mente. Non si tratta tanto di individuare prospetticamente i costitutivi antropologici, quanto di sottolineare come l'amore scaturisce insieme dall'affettività, dal raziocinio, dall'io profondo. L'amore promana dal loro intreccio e nel loro intreccio si esprime. Dio, insomma, non lo si ama a compartimenti stagni. Lo si ama nella complessità, radicalità, unitarietà, nella propria interezza di persona. Gesù afferma la prossimità del secondo comandamento al primo. Oltre la regola aurea del non fare agli altri ciò che non si vorrebbe fatto a noi stessi, esso chiede anche d'amare l'altro, di usare verso l'altro lo stesso atteggiamento, gli stessi sentimenti, la stessa benevolenza che si ha verso Dio.
L'amore del prossimo e l'amore di Dio diventano per Matteo il criterio ermeneutico attraverso cui accostare la Legge e i Profeti. In polemica contro la moltiplicazione dei precetti, e ancor di più in polemica contro un'osservanza puntuale e formale di essi, incapace però di nutrire un vero amore verso Dio e verso il prossimo, Gesù rivendica l'altro, l'amore per l'altro, come misura dello stesso amore verso Dio. E, di fatti, è relativamente all'altro che l'amore verso Dio trova pienamente senso. L'altro mi è compagno nel limite, nella carne; amarlo diventa problema nella misura in cui occorre accettarne la complessità. Dall'altro non posso fuggire. E Dio fattosi corpo per me e verso cui non posso che nutrire sollecitudine e misericordia, facendo mio l'atteggiarsi di Dio verso la creatura. Matteo di sicuro intende trasmetterci un precetto del Signore Gesù; per altro, pur se diversamente, ritroviamo la controversia e la risposta anche negli altri sinottici. Ma nella unitarietà più volte conclamata del compiersi della Legge e dei Profeti, intende anche mettere in guardia la sua comunità da un atteggiarsi sterilmente formale. La giustizia più grande a cui il discepolo è chiamato passa dunque dall'amore del prossimo, misura tangibile ed esperita del comandamento primo e più grande, l'amore verso Dio, che solo nell'amore del prossimo trova la sua verità e concretezza.


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