XXXI Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 10/2017)



ANNO A – 5 novembre 2017
XXXI Domenica del Tempo ordinario

Ml 1,14b-2,2b.8-10
1Ts 2,7b-9.13
Mt 23,1-12
(Visualizza i brani delle Letture)


SIAMO TUTTI FRATELLI,
UNO SOLO È IL PADRE

«Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Le parole che chiudono il vangelo d'oggi esprimono bene il messaggio di questa domenica. Valgono per ciascuno di noi, quale che sia il dono ricevuto, quale che sia il ministero esercitato. E tuttavia è innegabile l'ovvietà d'applicarle soprattutto ai ministri "ordinati" quali soggetti preposti alle comunità cristiane. Oggi più che mai le letture chiedono un'autocritica, una presa di distanza da quella linea dispotica che, consapevolmente o no, seguita a prevalere. Il parroco sono io e comando io; il vescovo sono io e comando io...
Certo potremmo anche aggiungere: questo incarico è mio e lo gestisco io, allargandoci alla sfera laicale nella sua "invidia" irrisolta verso la condizione dei "ministri ordinati". Più evidente, tuttavia, è la tentazione sottesa al "sacerdozio" considerandolo un sacramento "speciale", quella del ritenere talmente importante il proprio ruolo da dimenticare in nome di chi lo si esercita e a favore di chi lo si fa. I ministeri, quali che siano, si esercitano a partire dall'essere membra vive del popolo di Dio e occorre non dimenticare quest'orizzonte di comune dignità, di comune appartenenza.

Il vangelo di Matteo ci pone dinanzi a una presa di parola di Gesù fortemente polemica nei riguardi degli scribi e dei farisei. Sono questi ad aver preso posto sulla cattedra di Mosè. Gesù esorta a praticare quanto insegnano, senza imitarne l'agire, dal momento che risultano incoerenti. Impongono fardelli pesanti agli altri, guardandosi bene dall'alleggerirli. Peggio, agiscono non per convinzione ma per acquisire il plauso degli altri e lo fanno enfatizzando le vesti loro d'osservanti, appunto ampliando filatteri e frange; occupano i primi posti, ben lieti d'essere riveriti.
In Matteo leggiamo ancora: «E non chiamate "padre" nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste». Detto altrimenti, quale che sia il compito assolto, esso non mette in questione l'orizzonte comune dell'appartenenza, l'essere tutti "fratelli". Se persiste una dimensione verticale essa riguarda solo Dio, a lui solo spettano i titoli di "maestro", "padre", "guida". Gli altri sono stretti reciprocamente da vincoli orizzontali, senza distinzioni gerarchiche di qualsivoglia tipo. Gli uni verso gli altri possiamo avere solo un'attitudine di servizio ed essa è inversamente proporzionale al rango presunto. Questa è l'utopia della fraternità cristiana, il gioco policromo dei doni e dei compiti diversi, esercitati gli uni verso gli altri ben sapendosi alla pari, tutti egualmente figli e figlie, tutti egualmente fratelli e sorelle!
Ahimè, quanto ciò è lontano dalla consuetudine, dal vivere cristiano. Ci siamo appiattiti sulle gerarchie sociali e le abbiamo interiorizzate al punto da crederle di diritto divino. I nostri filatteri, le nostre frange sono quelle ormai fuori dal tempo di pesi imposti senza compassione verso quelli sulle cui spalle li poniamo. E, cosa assai più grave, il nostro cuore resta impermeabile al valore del "servizio". È piaga politica e sociale, certo, ma soprattutto è piaga ecclesiale, quasi che l'essere per gli altri fosse un'onta, una dismissione d'autorevolezza e non l'habitus di noi cristiani.


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