XXXII Domenica del Tempo ordinario (A)

La Parola
Commento di Cettina Militello
Vita Pastorale (n. 10/2017)



ANNO A – 12 novembre 2017
XXXII Domenica del Tempo ordinario

Sap 6,12-16
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13
(Visualizza i brani delle Letture)


IL VALORE DELL'ATTESA
E DELLA VIGILANZA

«Ecco lo sposo! Andategli incontro!». Il grido che si alza in quel di mezzanotte esprime bene il tempo che viviamo, l'anno liturgico che va a concludersi. Esprime bene anche il nostro anelito verso il Signore il cui ritorno attendiamo. La "parabola" evangelica delle dieci vergini risulta alquanto complessa. Certamente Matteo vuole mostrare alle sue comunità il valore della vigilanza e dell'attesa e di ciò che deve accompagnarle. Siamo all'inizio del capitolo 25 di Matteo, a conclusione di quella sezione che si è aperta al capitolo XIX mettendo in scena il confronto e giudizio tra Gesù e Israele.
Quanto narrato ci è ben noto. Tra l'altro, innumerevoli immagini pittoriche ce lo hanno nei secoli diversamente riproposto. Iconografie a parte, Gesù si avvale in questa, come in altre circostanze, del vissuto concreto della sua gente. E dunque conosce bene la consuetudine delle giovani compagne che in corteo conducono la sposa verso lo sposo. Come si sa ogni cultura ritualizza le nozze e le celebra come l'evento gioioso per antonomasia.

Nella scena che ci viene presentata le giovani sono distinte in sagge e stolte o, com'è stato anche tradotto, in "sprovvedute" e "lungimiranti". Le prime si sono ben provviste d'olio così da "sfondare la notte", le altre invece non vi hanno provveduto. Nel sopore che coglie tutte nel protrarsi dell'attesa, ecco il grido: lo sposo è giunto. Alla richiesta delle stolte di compartire l'olio, le sagge ricusano. Ed ecco solo queste ultime avranno accesso alla stanza nuziale. Le altre resteranno invano a bussare; anzi sentiranno lo sposo dir loro: «Non vi conosco». Al cuore del racconto sta dunque il tema dell'attesa e della vigilanza. Occorre vegliare perché della venuta dello sposo si ignora il giorno e l'ora. Sonno-veglia, tenebre-luce fanno da sfondo e suggeriscono l'inedia sconfitta dalla vigilanza, l'oscurità sconfitta dalla luce gaudiosa delle nozze.
Sappiamo come il tema sponsale, che ritorna più volte nell'Antico Testamento, trovi eco con difficoltà nel Nuovo. Gesù non dice quasi mai di sé che è lo sposo. Eppure il contesto della parabola pare suggerirlo. Le nozze implicano l'alterità, il fare spazio all'altro; implicano un uscire da sé, un farsi incontro. È talmente complessa la loro trama arcaica che ben si comprende il costrutto della narrazione, i suoi personaggi, le sue anomalie, la brutalità della porta chiusa.
Ed è altrettanto evidente che è Gesù il Messia-Sposo, anche se l'attesa di cui si parla è quella parusiaca. Proprio per questo i Padri hanno giocato sul tema della verginità come pure delle lampade e dell'olio. Scrive Crisostomo che a fare la differenza non è la verginità, quanto piuttosto l'olio, a suo dire simbolo della carità. Detto altrimenti, non è custodendo fiscalmente integra la propria persona che si è ammessi alla stanza nuziale, ma prodigandosi per i propri fratelli e perciò giungendo alle nozze ricchi dell'olio di una operosa carità.
La parabola non evoca soltanto la gioia, la comunione, l'intimità nuziale, ma anche l'esserne esclusi e perciò il giudizio. L'invito che ci viene rivolto è quello di vegliare e di farsi trovare con le lampade accese, ossia d'attendere Cristo che torna nel segno di una operosità degna del Regno di Dio che definitivamente viene a compimento.


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