La figura dello straniero nella Scrittura



Il diaconato in Italia n° 202
(gennaio/febbraio 2017)

CONTRIBUTO


La figura dello straniero nella Scrittura
di Carlo Maria Martini

Questo intervento del card. Martini rimane un punto di partenza quanto mai attuale per una riflessione sui fatti che oggi ci interpellano. La capacità di leggere le Scritture affina lo sguardo, apre il cuore, parla agli uomini.

I dati della Bibbia
A modo di premessa va ricordato che il popolo ebraico vive in Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da migrazioni frequenti. La Palestina, infatti, è luogo di passaggio, come un corridoio tra l'Egitto e i grandi regni attorno all'Eufrate (Babilonia e Assiria), percorso continuamente da carovane ed eserciti stranieri.
È quindi un luogo dove l'esperienza dello straniero è un fatto quotidiano; ciò spiega la rilevanza del nostro tema in particolare nella Bibbia ebraica, nel Primo Testamento. Del resto Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586 a.C.), molti israeliti furono deportati in Babilonia. Per tutti questi motivi Israele ha sviluppato una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero, espressa anche dal vocabolario. Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica per indicare lo "straniero" o "forestiero". Tre termini nei quali si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo (suggeriscono perciò, in qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino): lo straniero lontano -zar-, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero residente o integrato -gher o toshav-.
La parola ebraica zar sta a significare lo straniero che abita fuori dei confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo. Verso questa figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di inimicizia. La paura dello straniero ha quindi delle radici molto profonde nel cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura. C'è anzi un gioco di parole nell'ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da cui ci si deve difendere). Un gioco di parole che fa comprendere come Israele si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato da popoli potenti che ne insidiano la sovranità. Da qui la paura e il senso di estraneità verso i popoli vicini aggressivi e prepotenti. Tra i tanti possibili testi, cito Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: «Il vostro paese è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri» (1,7). È chiaro che "stranieri" vuoi dire "nemici" temibili. Questa considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve verso toni più positivi specialmente dal momento dell'esilio in Babilonia (circa VI secolo a.C.), quando affiora la percezione che l'esilio non ha segnato la disfatta del Dio d'Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli, da dèi più potenti di cui si vantavano gli altri popoli. Al contrario l'esilio fa prendere maggiormente coscienza della elezione dei figli d'Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo popolo e gli affidi una missione in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente la sconfitta aiuta a percepire la missione verso gli stranieri.
Richiamo un brano di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: «Io ti ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri» (42,6). E, in 49,6: «Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino all'estremità della terra». Lo straniero allora non è più solo un nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si riduce per fare posto a un senso di missione. Notiamo che una simile coscienza risuona anche nel Nuovo Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al tempio: Gesù bambino è chiamato «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele». Sono parole che riprendono verbalmente Isaia e segnano il superamento della paura dello straniero verso la coscienza di una missione nei suoi riguardi.
Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio, l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi di viaggio, di commercio (una sorta di "pendolare"). Verso il nokri ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza, ma non più una paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri e impuri, con le distinzioni legali, e dice tra l'altro: «Non mangerete alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero, perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio» (14,21). Si mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno delle concessioni. Comunque la regola di base è l'ospitalità, tipica della tradizione dell'Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona accoglienza. Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei beduini, ai margini del deserto, conosce questa ospitalità, questa accoglienza gioiosa.
Cito in proposito l'esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui stranieri, non membri del suo popolo, si mette al loro servizio e prepara un lauto pasto: «Abramo sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora più calda del giorno», quando si ha voglia di dormire, di abbandonarsi al sonno. «Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero» (Gen 18,1-4). Fa quindi preparare focacce e un vitello tenero e buono. È una bella descrizione dell'accoglienza riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
Il terzo vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo straniero residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele. Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi legislativi più antichi: «Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto» (Es 22,20). È un testo da cui emerge una radice più profonda dell'accoglienza allo straniero: la ragione, il motivo del rispetto sta anche nell'esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate. Proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese.
Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa avvenuta nell'esilio cioè nella purificazione e nella sofferenza - e anche con la evoluzione delle leggi e dei costumi, il gher sarà sempre più inserito nella comunità religiosa, come leggiamo in Dt 10,18-19: «Il Signore rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero». L'amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli - l'orfano, la vedova, lo straniero - noi pure dobbiamo amarli.

Principi teologici dell'accoglienza dello straniero
Il Nuovo Testamento segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo straniero. Il discorso sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le motivazioni che nel Nuovo Testamento fondano il comportamento cristiano verso il forestiero, le esprimo così: una motivazione cristologica, una carismatica e una escatologica.
Il motivo cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio finale, là dove Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui stesso: «ero forestiero e mi avete ospitato... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Si dice dunque molto di più del testo del Deuteronomio (Dio ama il forestiero e tu devi imitarlo). L'accoglienza dello straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l'occasione per vivere un rapporto personale con Gesù. Mi viene in mente Madre Teresa di Calcutta, che ha ripetuto infinite volte la parola "lo avete fatto a me", facendone il fulcro di tutta la sua missione. È certamente una parola chiave per il rapporto col prossimo e anche con lo straniero.
Il secondo motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità. «Aspirate ai carismi più grandi», insegna san Paolo in 1Cor 12, 31 e, nel capitolo 13 dice che il carisma più grande è la carità. L'accoglienza dello straniero è una delle attuazioni dell'amore, amore che è la legge fondamentale del cristiano. «Ama il prossimo tuo come te stesso», risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei comandamenti (cf. Mc 12,31); e in Mt 7,12 Gesù riassume la Legge e i Profeti nella cosiddetta regola d'oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». La carità, dono superiore a ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, «si è fatto prossimo» (cf. Lc 10,36), ha vissuto il carisma della carità.
Il terzo motivo che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di carattere escatologico, concerne le cose ultime, la destinazione dell'uomo alla vita eterna. In tale visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini e stranieri in questo mondo: «Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14; cf. Eb 11,10-16).
Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto, costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo stato di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello: «I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto). E non perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta preparando.
Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che, sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili, per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono certamente molto esigenti e radicali.

Difficoltà e gradualità di un cammino di integrazione
Vogliamo allora chiederci: in quale contesto ci raggiunge il messaggio biblico? quali reazioni e quali resistenze suscita in noi? A me sembra infatti che la questione degli stranieri oggi - in Italia e in Europa - non sia soltanto delicata e difficile, ma pure un segno dei tempi e anche un segno di contraddizione. La presenza degli stranieri tra noi, pur con tutti i progressi compiuti, non è ancora ben assimilata e nemmeno ben tollerata. Vi sono delle reazioni negative comprensibili, dovute a momenti particolarmente drammatici: per esempio, quando gli stranieri commettono dei reati. In questi casi l'orrore e il rifiuto sono giustificabili, come pure la domanda di legalità e di difesa dell'ordine pubblico è più che legittima.
Ma, al di là di tali circostanze, permane nella gente un timore e una diffidenza verso gli stranieri. Riguardo allo scenario di fondo, siamo di fronte a un nuovo, grande processo di rimescolamento delle genti, per una serie di fattori che conosciamo. L'Europa e il Nord America vivono un'epoca di benessere e di democrazia tra i più alti della storia. Di conseguenza, il sud del mondo, povero e spesso sottosviluppato, preme verso il nord del mondo. L'ideale sarebbe lo sviluppo di questi paesi nelle loro terre, in modo che ogni persona trovi cibo, lavoro e libertà a casa propria. A livello internazionale occorre certamente puntare sullo sviluppo e la promozione del sud. Non è però una soluzione attuabile a breve termine, per motivi sia politici sia socio-economici, motivi che in questa sede non è possibile approfondire.
Quali sono dunque gli sviluppi prevedibili della situazione attuale, in particolare per gli stranieri extracomunitari che fanno più fatica a essere integrati? In proposito si è parlato molto negli ultimi mesi dell'Islam e delle probabilità maggiori o minori che ha di integrarsi con la nostra cultura e le nostre tradizioni. A mio avviso siamo di fronte a tre ipotesi possibili: secolarizzazione, integralismo, integrazione.
C'è l'ipotesi di una secolarizzazione o omogenizzazione dei nuovi venuti che accettano la modernità europea, con il suo scetticismo, il suo individualismo, il suo indifferentismo, e abbandonano a poco a poco le tradizioni d'origine mescolandosi con l'ambiente circostante. L'ipotesi contraria è quella del costituirsi di ghetti, di luoghi di chiusura e di resistenza, in cui si conservino rigidamente le tradizioni e la coscienza della propria estraneità, magari con la prospettiva "medicale", di una conquista graduale del territorio, grazie soprattutto alla crescita della natalità. Una terza ipotesi possibile è quella di una integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante. Non sappiamo quale di queste prospettive si realizzerà, e molto dipende anche da noi. Mi pare tuttavia che la terza ipotesi - integrazione graduale e progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della cultura del paese ospitante - sia l'unica accettabile.
È una prospettiva ardua, per la quale occorre operare non solo nel quadro del superamento delle paure, non solo nel quadro della legalità, ma con una pedagogia che insista specialmente sui bambini e sui ragazzi, figli degli immigrati, dal momento che sono più facilmente adattabili alle situazioni nelle quali vivono. Per loro è un bene potersi integrare con serenità nell'ambiente dove imparano ogni giorno a vivere. Non chiediamo, naturalmente, che rinuncino ai tratti civili e morali che li caratterizzano, purché siano rispettosi della cultura del paese ospitante. Chiediamo dunque, anzi esigiamo il rispetto delle leggi proprie del paese.

Quale senso per il mandato di Gesù?
Rimane la domanda più specificamente religiosa che è stata posta all'inizio del nostro incontro, la domanda sul mandato di Gesù: «Andate e predicate il Vangelo». Nel confronto che siamo tenuti ad avere con le altre religioni e culture, quanto c'è ancora della forza evangelizzatrice che avevano i primi cristiani? La risposta va articolata. Vi sono, infatti, gli immigrati cristiani (circa la metà), in parte cattolici e in parte ortodossi, che stanno già portando un'iniezione di vitalità e di generosità nelle nostre parrocchie e nei loro luoghi di culto; basta partecipare ad alcune delle loro feste per rendersene conto. Ogni anno sono invitato al Natale dei capti ortodossi originari dell'Egitto, presenti in gran numero a Milano: la sera del 6 gennaio celebrano il Natale ed è impressionante vedere quanti giovani, donne, uomini, bambini pregano intensamente. Aggiungo, tra l'altro, che, pur essendo ortodossi, mi accolgono alla porta della chiesa con inchini e danze per condurmi poi all'altare maggiore dove il Vescovo presidente mi rivolge un saluto con espressioni piene di affetto. È una realtà immigrata che ci aiuta attraverso una forte testimonianza cristiana.
Penso inoltre ad alcune celebrazioni vissute con la comunità filippina, molto fervente, profondamente cattolica, e a celebrazioni solennissime di comunità latino-americane, come i peruviani. La domanda sull'evangelizzazione non riguarda quindi lo straniero in genere, bensì i non cristiani, in maniera speciale l'Islam. E al riguardo rispondo ricordando anzitutto la parola di san Paolo: «Guai a me se non evangelizzo» (1Cor 9,16). Il cristiano è sempre tenuto a testimoniare la sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità delle situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo evangelizzare col Vangelo della carità, dell'accoglienza e anche col Vangelo della pazienza. È la prima testimonianza che rende presente il Dio che amiamo.
C'è poi l'evangelizzazione fatta col Vangelo della vita, vivendo l'onestà, la sincerità, la trasparenza nei rapporti di lavoro, l'accoglienza e la mutua fiducia. Infine, il Vangelo della parola, che può essere particolarmente arduo da annunciare in certe circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i pregiudizi, chiarendo le idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca. Non dobbiamo però mai tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e che amiamo, nella maniera più adeguata alle singole situazioni, cioè nei tempi e nei modi opportuni.

Concludendo
Concludo riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù, di cui soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e amareggiato, domanda: «Non sono forse stati guariti tutti e dieci? Dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?» (17,17-18). Noi ci troviamo più volte tra i nove che non sanno ringraziare, non sanno apprezzare il dono della fede perché lo ritengono quasi ovvio e scontato, e che hanno dunque perso qualcosa della forza evangelizzatrice dei primi cristiani.
La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero un'occasione provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare alla nostra origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo invadere dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante per noi stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri.

(Dall'intervento al convegno "Integrazione e integralismi. La via del dialogo è possibile?", Cesano Maderno, 19.01.2001)

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