«A quanti l'hanno accolto»


Il diaconato in Italia n° 202
(gennaio/febbraio 2017)

ANALISI


«A quanti l'hanno accolto»
di Giuseppe Bellia

«Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,11-12). Sarebbe già molto istruttivo conoscere i n quanti modi è stato compreso e definito il prologo di Giovanni. Dai padri della Chiesa fino agli ultimi commentatori questo canto giovanneo rimane un "paradosso inarrivabile". Si resta veramente sgomenti davanti a questa pagina, davanti alla cadenza teologica di queste parole che richiedono riflessioni alte e audaci. Ritengo perciò più proficuo, per essere in sintonia con il tema che caratterizza questa relazione e lo stesso Convegno La persona una storia sacra, non soffermarmi sulle avvincenti questioni esegetiche, quanto piuttosto offrire alcuni elementi interpretativi utili per cogliere il senso e la portata di alcuni precisi passaggi significativi del prologo. In dettaglio, i versetti scelti sono l'11 e il 12: «Venne nella sua casa, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio».

Il percorso della Parola-Luce
Una primissima regola ermeneutica vuole che, quando si astrae da un testo una frase o un periodo, per una comprensione corretta si deve ricollocare il brano nel suo contesto originario prossimo e remoto. Più esattamente si deve ricollocare con attenzione e pazienza la parola all'interno della frase, la frase all'interno del periodo, il periodo all'interno del brano e il brano all'interno della pericope. Del resto anche quando leggiamo liturgicamente la Parola di Dio, come sanno i presbiteri e i diaconi qui presenti, siamo invitati a guardare da dove è tratta per stabilire gli elementi propri del suo preciso contesto narrativo. Un'attenzione che qui è richiesta anche per questi due versetti, perché si deve comprendere non solo come si collocano nel prologo, ma secondo le suddivisioni o le strutture individuate, si devono mettere in relazione con la parte più prossima e dotata di senso compiuto. Gli specialisti tendono per lo più a situare questi versetti nella IV strofa del prologo oppure nella seconda parte per quanti preferiscono adottare uno schema tripartito.
In ogni caso si deve presentare un percorso plausibile della parola "accoglienza" o del verbo "accogliere" all'interno del prologo, a cominciare proprio dal suo rapporto con il Logos. Ora, è sotto gli occhi di tutti che la parola "in principio" con cui iniziam il prologo ricorda, sia in greco (en arché), sia in ebraico (berescìt), l'inizio del libro della Genesi. Che cosa significa esattamente questo "in principio", è questione assai disputata; certo non ha valore temporale e perciò non si può tradurre piattamente li con un "dapprima" o "all'inizio". In realtà siamo davanti ad un predicato della sapienza-Logos e sembra pertanto avere un valore di tipo relazionale o più esattamente personale. In questa prospettiva, forse, ci può aiutare a capire l'incipit del IV Vangelo il probabile percorso compiuto dalla Sapienza all'interno del pentateuco sapienziale.
È stato già tracciato da esegeti competenti il tentativo di disegnare le tappe di questo percorso. In quel mirabile interludio, che è Giobbe 28, si metteva in evidenza che nessun vivente sa "da dove" viene la sapienza e "dove" si può cercarla. Un'interpretazione molto accreditata spiega che l'homo faber e l'uomo economico con tutta la loro perizia e bravura dichiarano di non conoscerne l'origine. Soltanto il timorato di Dio, l'uomo religioso, può rinvenirla, anche se non si dice, come e dove trovarla. In Proverbi 8 invece, l'enigma dell'incontro con la Sapienza sembra ormai quasi sciolto: la Sapienza può essere trovata; anzi, si presenta come amabile fanciulla da marito, che il padre consiglia al figlio come sua sposa. Questa sapienza che invita l'inesperto al suo mirabile banchetto, assomma in sé tutte le caratteristiche femminili desiderabili da un giovane: è sposa, è madre ma è anche sorella che ti accompagna nel viaggio della vita.
La terza tappa di questo percorso, la troviamo in Siracide 24, un capitolo di forte impronta messianica e cristologica che dovremmo sempre riprendere e approfondire; in questa pericope abbiamo l'elogio della Sapienza intesa come Logos creatore del cosmo e animatore della storia. Si racconta che la Sapienza è uscita come parola dalla bocca dell'Altissimo e, uscendo, ha dato origine alla vita, ha creato l'universo ed entrando in rapporto con gli uomini è diventata storia in Israele. Si dice molto di più di questo suo entrare nel mondo: in realtà si assiste ad un processo di svuotamento della parola creatrice che si fa progressivamente sempre più piccola (vedi in ebraico il termine zimzun), si restringe, si svuota, si abbrevia come direbbero i padri, fino a diventare una cosa, a farsi un oggetto. Ecco, la Sapienza si fa libro, diviene sefer - biblos (Sir 24,23).
Alla luce di questi riferimenti infrabiblici, il prologo di Giovanni si apre a una prospettiva di lettura più orientata e sicura che illumina la gloria di un percorso compiuto nell'incarnarsi della Parola, verità che chiede alla fede di essere accolta e contemplata, con sguardo puro, come i padri ci hanno insegnato. Ora questo percorso storico-teologico della Sapienza è descritto nel Prologo di Giovanni, come Logos e come Luce. In principio è proprio come Luce che la Parola sovrana e creatrice di Dio entra nel mondo; a partire da questa luce la potenza creatrice di Dio si dispiega nel cosmo e nella storia. Entrando in relazione con l'uomo questo Logos-Luce diventa una singolarità unica, paradossale in Cristo Gesù. Il Verbo si è fatto carne nell'umanità di Gesù di Nazareth. Si vuole così indicare che non siamo davanti a un processo mitologico, ad un'ideologia religiosa e nemmeno davanti ad una credenza misticheggiante: siamo davanti ad una realtà storica sconvolgente.
E a motivo di questo concentrarsi dell'autorivelazione di Dio nel rabbì Galileo, proprio con Gesù di Nazareth si dà un senso nuovo, come un nuovo inizio alla storia dell'uomo. Da questo punto di vista, se si guarda alle caratteristiche divine, accennate nei primi due capitoli della Genesi, si nota che è possibile rintracciarle nel prologo di Giovanni come attributi del Logos. Che cos'è nella sua essenza questo Dio, di cui in verità non sappiamo nulla prima della creazione? Genesi ce lo descrive come un Dio che parla e che parlando crea e che creando si compiace di ciò che ha messo in atto: ecco, tutto questo agire di Dio lo si può ritrovare nel prologo come predicato del Verbo.

L'origine e la destinazione divina dell'uomo
Ma torniamo ancora a Genesi, dove si racconta, secondo il redattore Jahvista, che «Dio vide la solitudine dell'uomo e disse: non è bene che l'uomo sia solo» (2,18). Accade che la premurosa attenzione riservata da Dio alla sorte di Adamo non ci fa andare oltre nella comprensione del brano che contiene tuttavia una rivelazione sconcertante: l'Altissimo non riempiva il cuore di chi era stato tratto dalla terra. Perché non bastava. alla creatura il suo creatore? Come mai Dio non ha voluto ricolmare della sua magnifica presenza la solitudine dell'uomo?
In realtà il Creatore non ha voluto essere il partner della sua creatura perché la sua onnipotenza avrebbe sovrastato e annullato la fragile consistenza umana: sarebbe stata soltanto bontà e non amore; commiserazione e non relazione autentica. Sarebbe stato un rapporto sbilanciato, senza vera reciprocità. Dio allora introduce nel mondo una nuova creatura, tratta dall'uomo medesimo, come luogo pedagogico della relazione tra chi è insieme, simile e diverso. La sapiente strategia di Dio, che il peccato ha stravolto ma non annullato, era comunque una preparazione per quella relazione piena che solo nella nuova creazione l'uomo avrebbe potuto finalmente realizzare: il suo cammino di divinizzazione.
Lo stato naturale non bastava quindi all'uomo per giungere ad una relazione piena e duratura con Dio; ci voleva un cambiamento, una trasformazione, un rinnovamento radicale. Come procurarsi però questa «nuova creazione», questa palinghenesia (Mt 19,28)? Soltanto l'iniziativa gratuita di Dio poteva operare questa metamorfosi; all'uomo era richiesto di assecondare e accompagnare questa operazione della grazia con la fede. Più esattamente con la conversione del cuore, la sola realtà antropologica veramente umana che può procurare all'uomo questa intimità vera con quel Dio che nessuno ha mai visto e che solo il Cristo ci ha rivelato come divina e beata unione di persone. Relazione trinitaria dove uno è colui che genera e uno è il generato e uno è l'atto della generazione: lo Spirito Santo che distinguendo unisce e unendo distingue il Padre ed il Figlio.
Le persone divine si relazionano tra loro senza confusione e senza commistione nella comunione dello Spirito Santo che è donato agli uomini, perché divengano partecipi della stessa natura divina (2Pt 1,4). Compartecipando all'obbedienza di Cristo sono costituiti figli di Dio, essendo figli della risurrezione (vedi Lc 20,36). La paternità di Dio non è quindi per l'uomo una realtà originaria di cui può disporre, è invece originata dal sacrificio di Cristo, e cioè dalla mediazione dell'umanità del Figlio in quanto Parola rivelatrice del Padre, ma anche in quanto perfezionatore della stessa volontà di Dio.
I sacramenti continuando l'opera storico-salvifica di Cristo, compiono nel tempo questa mediazione santificatrice e rivelano la Gloria di Dio, come si legge nel prologo «e noi abbiamo visto la sua gloria» (1,14). Ora questa destinazione divina della nostra natura umana che conformandoci al Figlio ci rende nel battesimo da creature figli e nell'eucaristia ci costituisce corpo del Cristo vivente, è preparata e insieme resa completa dalla conversione. Proprio questo vivere nella fede è la conversione che, esaltando la capacità naturale dell'uomo di essere «a immagine di Dio», lo costituisce nella pienezza della sua realtà personale. Nel documento "Rigenerati per una speranza viva", potete trovarvi un accenno nei numeri 22-23. Qui mi interessa ricordare che soltanto nella rivelazione cristiana si ha la conoscenza di questa duplice trasformazione cui è chiamato ogni uomo mediante una continua conversione del cuore: della creatura che perviene alla consapevolezza di essere ad immagine di Dio divenendo figlio e del figlio che, in Cristo, può auto-determinarsi per diventare il suo corpo.
La comprensione di questa finale, gloriosa ed universale destinazione dell'uomo, ci richiede di passare da un atteggiamento di compassione ad uno di carità vera. La compassione scaturisce in noi dal riconoscere nel nostro simile l'immagine di Dio che va sempre rispettata e venerata. Ma a noi è richiesto di più: restituire ad ogni uomo il senso della sua destinazione divina. Non basta ridare al povero e allo straniero la dignità di uomo; c'è una intenzionalità più grande da assecondare: la divinizzazione dell'uomo. Certo, perché sia reso credibile questo progetto di Dio di far entrare nella terra promessa del suo regno, l'uomo, ogni uomo deve essere prima liberato dalla schiavitù d'Egitto, altrimenti non appare credibile la speranza di questa divina economia di salvezza.
Come ricordava Charles Peguy, non si può parlare di "pane eterno" a chi manca del pane quotidiano. Per questo è necessario impegnarsi subito a dare la dignità di creatura umana per far conoscere e rendere credibile il destino di figli di Dio che tocca tutti gli uomini. Si deve fare opera di accoglienza dello straniero e del povero con passione e compassione, senza trascurare però la carità teologale che muove ogni cosa. Ancorandosi a questa duplice prospettiva, senza confondere i piani e i momenti, procurerà quella preparazione evangelica che permetterà, nei tempi di Dio, di fare il lieto annuncio della salvezza. In questa prospettiva biblicamente orientata, la nostra accoglienza opererà secondo verità e giustizia: l'uomo non è soltanto uscito da Dio, è destinato a Dio.
Non siamo perciò sollecitati a svolgere un impegno soltanto sociale o ad incoraggiare forme di auto-promozione; quello che ci è richiesto non è affare della carne e del sangue (1,13), perché l'accoglienza piena dell'altro, come della stessa parola di Dio entrata nel mondo, esige la difficile e crocifiggente adesione della conversione. Solo così il nostro andare incontro a chi è ultimo, a chi è forestiero, può procurare non limitati orizzonti di benessere ma il fulgore di un disegno infinito, di una promessa eterna che chiede di realizzarsi: questo è la speranza cristiana. E noi, in realtà, che cosa stiamo promettendo, che cosa siamo in grado di promettere allo straniero - pensateci bene - una casa, un letto, un diritto a divenire consumatori di beni? Certo, cose necessarie: ma è tutto lì?
La promessa che può generare un'attesa grande, è di consentire a tutti di diventare figli di Dio. Obliando o sottacendo questa speranza, tradiremmo la nostra fede e lo stesso mandato del Signore Risorto (Mt 28,19-20). Come non prendere atto che spesso si assiste ad uno stemperarsi della verità indisponibile della fede, come se bastasse soltanto accogliere l'altro confidando in un'eguaglianza sociale che non fa più riferimento a quella destinazione divina che sola ci costituisce in un'eguaglianza divina più grande di essere partecipi della stessa vita trinitaria?
Si può annunciare e testimoniare tutto questo nella mitezza della fede anziché nella sufficienza delle apologie, nella verità di un sentire paziente, modesto e non nell'arroganza degli estremismi verbosi e violenti. Si deve consegnare una parola mite e coraggiosa come quella di Cristo, di Stefano, di Paolo come quella dei primi testimoni e dei discepoli di ogni tempo.

Come il Vangelo può diventare una storia sacra per gli ultimi
L'incapacità di dire qui ed oggi il Vangelo, l'afasia ecclesiale che sembra caratterizzare il nostro tempo non deve essere dimenticata o resa inoffensiva con vuoti raggiri di impegni e di convegni. Non possiamo accontentarci dei buoni sentimenti, di qualche elemosina da dare a qualche rom o zingaro fuori dalla porta di chiesa. Non può essere tutto lì il fuoco che il Signore è venuto ad accendere sulla terra. Non si accende però il fuoco dello Spirito con l'arrovellarsi di pensate, con l'escogitare nuove iniziative che procurano quel vacuo agitarsi di Marta condannato da Gesù (Lc 10,38-42); è qualcosa d'altro che deve compiersi. Rispettare l'uomo, significa anche rispettare il progetto originario di Dio che vuole che tutti gli uomini siano salvi (1Tm 2,4).
L'evangelizzazione se è puro annuncio e se è depurata da ogni forma di etnocentrismo e da ogni volontà colonizzatrice, se non pretende di conformare l'altro a se stesso ma di aprire, specie agli ultimi, i tesori del Regno, allora realizza il mistero della volontà di Dio che vuole che proprio i poveri e gli ultimi siano i soggetti privilegiati del suo Evangelo (Lc 7,22). Chi è stato tra i veri poveri, sa che questa parola è vera.
Ora questa parola di evangelizzazione deve essere detta con sapienza perché il cristiano, come grida san Paolo, conosce colui in cui ha creduto (2Tm 1,12), ma si deve anche ricordare che la testimonianza più coinvolgente e suasiva che ci viene richiesta non è quella di fare del bene, ma è un volersi bene: «amatevi gli uni gli altri» è il comando del Signore (Gv 15,12.17). Il precetto dell'amore reciproco è un fatto, un avvenimento, è una parola incarnata che rivela al mondo la vera appartenenza a Cristo: il progetto originario di Dio è la fraternità. Da questo amore reciproco, piuttosto che dai gesti di carità verso gli altri, il mondo e gli uomini sapranno chi sono i veri discepoli di Cristo (Gv 13,35). È scritto, infatti, che anche spendendosi in tutto per gli altri fino a distribuire tutti i propri beni ai poveri, senza avere l'agàpe, cioè senza avere lo Spirito Santo, è solo rumorosa ed inutile messa in scena che rischia di esibire il proprio valore umano ostentando la propria superiorità morale.
Charles De Foucauld ci ha insegnato che, anche in pieno deserto, si può gridare il Vangelo con la vita; e tuttavia «come sono belli i piedi di coloro che annunziano il vangelo di Cristo» (Rm 10,15). Si evangelizza testimoniando, gridando il Vangelo con la vita, quando non ci è permesso di annunciare la parola della salvezza, come nei paesi islamici. Una preghiera gradita a Dio, da considerare tra quelle immancabili in ogni Messa, c'è la supplica da elevare per i governanti della terra, affinché sia permesso di vivere in tutta tranquillità e dignità la propria fede (1Tm 2,2). Nei documenti della nostra Conferenza Episcopale, con misura, si afferma che il fenomeno della globalizzazione in sé non è da demonizzare; con tutta la sua pesante ambiguità potrebbe essere un'occasione utile, un'opportunità insperata per annunciare Cristo anche ai lontani. Come evangelizzare però, senza aver già sperimentato la salvezza di Cristo? Se i testimoni non si mostrano redenti, salvati, pacificati e portatori di pace, gioiosi come può il vangelo diventare lo strumento salvifico di una storia sacra per tutti?
La ragione per cui molte indicazioni pastorali, anche se vivaci e creative, non toccano la vita reale delle chiese e le profondità del cuore dell'uomo risiede nel fatto che non sembrano scaturire da un processo di conversione; sono come devono essere e come ci si aspetta: senza stupore. Oltretutto si dà per scontato in un'epoca tumultuosa come la nostra, non più post-cristiana, ma ormai post-umana come molti la definiscono, una visione dell'uomo che non ha effettiva consistenza antropologica. Viviamo in una società satolla ed intorpidita, dominata da un capitale che si è mimetizzato, diventando biologico e adesso perfino inorganico, che opera in un anonimato che non lascia spazi a interrogazioni morali, rispondendo solo a criteri di successo, di efficienza, di potere.
Nell'indifferenza generale è saltato il principio di solidarietà, in fabbrica come in politica. Il fragile mondo dell'emigrazione, con la sua strutturale insicurezza segnala a tutti noi che in forza della fede come figli di Abramo siamo chiamati a riconoscere il nostro stato di viandanti: siamo tutti ospiti e forestieri sulla terra, perché chiunque crede fa di sé un nomade e un pellegrino.
Il prologo giovanneo ci ha mostrato il Logos venuto nel mondo per realizzare una piena relazione tra cielo e terra, e, divenuto carne, è entrato nella storia degli uomini perché il mondo avesse l'opportunità di entrare nella vita divina: incarnazione della Parola e divinizzazione dell'uomo sono dunque realtà inseparabili che ci interpellano chiedendoci la conversione del cuore, il cambiamento dei costumi, e finalmente un intelligenza adeguata, per dire Cristo dovunque e a tutti.
Tra rifiuto e accettazione la Parola continua ad offrire anche agli uomini del nostro tempo, a quanti hanno accettato di credere al mistero dell'incarnazione, la grazia di diventare figli conferendo così alla storia umana una precisa intenzionalità sacra, per la sua origine e per la sua destinazione. Nella debolezza dello straniero ogni cristiano intravede l'immagine del suo Signore crocifisso e, attraverso l'accoglienza e il dono dell'evangelizzazione, può indurre ogni emarginato a partecipare all'incarnarsi della Parola nel mondo perché la storia possa continuare a rivelarsi ancora come storia sacra.


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